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Una pianta che valeva oro e da un giorno all’altro più niente. L’arrivo dell’indaco nel Seicento cambiò l’economia del Ducato

Il guado, antica pianta tintoriale di Urbino, ritorna alla ribalta grazie a Alessandra Ubaldi. Il suo e-commerce "Guado Urbino" propone tessuti tinti con l'azzurro dell'isatis tinctoria, creando una nuova filiera e valorizzando la storia millenaria del territorio.

Una pianta che valeva oro e da un giorno all’altro più niente. L’arrivo dell’indaco nel Seicento cambiò l’economia del Ducato

Di vegetali semi scomparsi e oggi rivalutati dalla gastronomia è pieno il piatto, è il caso di dirlo. Ma non si può affermare altrettanto riguardo i vegetali usati per tingere. Nel campo tessile, fibre e coloranti naturali sono ormai da decenni le alternative più ricercate, costose e minoritarie rispetto a materiali e colori sintetici. In tutto ciò, Urbino e il nostro entroterra potrebbero sparigliare le carte: e il merito è del guado. La sua storia è lunga e semplice allo stesso tempo. L’isatis tinctoria, nome scientifico, è una piccola pianta della famiglia delle brassicacee che fiorisce un anno sì e uno no; è diffusa in Asia e Europa da millenni e le sue foglie si usavano, dopo un certo processo, per tingere i tessuti di un bell’azzurro, non troppo scuro. Ebbene, la zona urbinate per secoli, dal medioevo fino al Seicento, fu l’epicentro della nostra penisola nella coltivazione e trasformazione di questa pianta per ottenerne il blu. Un commercio floridissimo e strettamente regolato dai Montefeltro, che avevano il controllo praticamente su quasi tutta l’area in cui si coltivava e ne permettevano il commercio solo a una ristretta cerchia di persone, iscritte all’Arte della Lana e del Guado.

Nel Seicento, il crollo: arriva l’indaco direttamente dall’Oriente, in panetti condensati pronti all’uso, che costano molto di meno e danno un blu di gran lunga più intenso. Per intenderci, il blu dei jeans. Le coltivazioni di guado scompaiono non solo nel Montefeltro, ma in tutta Europa (vi erano centri produttivi anche in Francia, Germania, ecc.) nel giro di pochi decenni. E la pianta, che non ha altri usi, viene dimenticata. Ma nonostante il passare dei secoli, siccome presenta caratteri infestanti, in realtà la pianta rimane. Nelle aree incolte, nei fossi, nei prati. E rimangono anche le pesanti macine in pietra, che vengono notate e censite per la prima volta alcuni decenni fa dal veterinario e storico Delio Bischi.

Bischi le ritrova sparse qua e là, come basi di croci, fioriere, tavolini, o semplicemente abbandonate. Si appassiona al guado e pubblica le sue ricerche. In quegli anni, una giovane studentessa di Urbino, Alessandra Ubaldi, legge alcuni articoli del Carlino che parlano di Bischi e ha una folgorazione. Dopo diversi anni passati fuori Urbino, torna e decide di fare del guado il suo lavoro, tingendo stoffe come un tempo e studiando la antica pianta. Non è l’unica ad essersi appassionata del guado, ma è l’unica a dedicarsi a tempo pieno ad esso e solo a tale colore. Il suo e-commerce “Guado Urbino“ propone foulard, stole, borse, fazzoletti. Ma ha aperto anche le sue cantine dove vi ha allestito una mostra-laboratorio permanente dedicata all’antico “oro blu“. Il guado piace, e nel corso degli anni piace sempre di più. Con l’adeguata adesione di enti pubblici a valorizzare un turismo delle macine – ove presenti – e dei luoghi storici ad esso legati, e dei privati che possono crearne una nuova filiera, potrà diventare un souvenir apprezzato del nostro territorio. Un souvenir unico, perché qui e solo qui c’è una storia millenaria da raccontare.

gio. vol.