Producevano abiti di lusso per le firme più costose, ma lo facevano per pochi euro l’ora e in condizioni abitative e alloggiative terribili. E per il titolare di un’azienda di Cagli, un 44enne cinese residente ad Acqualagna, sono scattate le manette con l’accusa di intermediazione illecita e sfruttamento di manodopera. Nel laboratorio di Cagli, che nel gennaio 2021 era stato sottoposto a sequestro preventivo, i carabinieri di Cagli e l’Ast di Urbino, durante un’ispezione condotta in piena pandemia, avevano trovato uno scenario a dir poco degradante.
Le condizioni di lavoro del capannone non rispettavano le norme di salute e sicurezza e, sempre all’interno del laboratorio, erano stati realizzati dei veri e propri “loculi“ abitativi in cui i 10 lavoratori, reclutati fra persone in cerca di lavoro e in condizioni di indigenza, passavano il poco tempo libero strappato al lavoro. I turni potevano essere anche di 12 ore al giorno, in base a un contratto part time che ne prevedeva non più di 4 o 5. E la paga era irrisoria: pochi euro l’ora. Il 44enne si trova ora in carcere a Pesaro in base a quanto disposto ieri dal Gip di Urbino, su richiesta della procura. L’indagine è stata condotta dai Carabinieri del nucleo ispettorato del lavoro di Pesaro e Urbino, in collaborazione con la stazione dei carabinieri di Cagli, coadiuvati dal comando Acqualagna e dalla Guardia di Finanza di Urbino. L’azienda sotto inchiesta lavorava per conto terzi, ossia per aziende locali che ricevevano a loro volta commissioni da marchi importanti.
Il sequestro preventivo era stato poi revocato e l’azienda era tornata a operare in condizioni di sicurezza. Circa 7 mesi fa, però, è stata chiusa e l’attività trasferita ad Acqualagna. Quest’ultimo laboratorio non è sotto indagine e si trova al piano seminterrato di un locale: al piano terra, in appartamenti, vivono i lavoratori e al piano superiore il titolare con la famiglia. Il giro d’affari accertato, gestito dal 44enne di nazionalità cinese, si aggira oltre i 700mila euro (da maggio 2018 a dicembre 2020). Ed è stato proprio questa cifra a due zeri, realizzata con un numero così esiguo di lavoratori, per giunta part time, a insospettire gli inquirenti.
"Da tempo il sindacato chiede di fare accordi di filiera – commenta Andrea Piccolo, segretario Filctem Cgil –, che prevedano trasparenza e tracciabilità dei prodotti e delle condizioni di lavoro, perché le aziende concessionarie, spesso aziende “griffate“, non siano più orientate alla sola massimizzazione del profitto, che si scarica sulle condizioni delle maestranze, ma piuttosto ad una competitività socialmente sostenibile. La responsabilità primaria è di chi affida la produzione ad aziende terze senza una verifica preventiva della regolarità delle condizioni lavorative e il necessario mantenimento anche della responsabilità delle committenti su tutto il ciclo produttivo".