Pesaro, 21 dicembre 2024 – Morì per un aneurisma al Pronto soccorso di Pesaro. E la Corte d’Appello di Ancona ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento da parte dell’azienda ospedaliera di 708.737,50 euro dopo un’odissea giudiziaria di oltre 11 anni. A perdere la vita era stato un 60enne pesarese, di professione autotrasportatore, sposato e con due figli. L’uomo si era rivolto al pronto soccorso alle 11.28 del 14 febbraio 2012 con forti dolori che si irradiavano dalla giugulare allo stomaco. Era stato visitato dai sanitari ed era stato sottoposto a un elettrocardiogramma. Poi, poco più di un’ora dopo, alle 12,31, era stato dimesso con “diagnosi di toracoalgia in trapiantato renale”.
“Non gli è stata fatta alcuna rx toracica – racconta l’avvocato Nicoletta Morante che ha assistito la famiglia nella causa risarcitoria in sede civile -. L’esito dell’Ecg era irregolare ma quell’esame non venne visto da alcun cardiologo. Il marito e padre dei miei assistiti è stato dimesso senza che gli sia stato consegnato il tracciato dell’Ecg. E’ uscito dall’ospedale ignaro di ciò che gli stava capitando ed è stato dimesso senza una consulenza cardiologica”.
E 36 ore dopo la prima dimissione l’uomo ha contattato il 118 perché non stava affatto bene: era mezzanotte e 39 minuti del 16 febbraio 2012. Venne sottoposto a radiografia del torace, ecg e tac e alle 3,23 della stessa notte, venne anche allertato l’ospedale di Ancona per il suo trasferimento immediato. Alle 4,14, però, a seguito di un arresto cardiaco, l’uomo morì in ospedale a Pesaro. La diagnosi fu di rottura di aneurisma dell’aorta. “Quando si trovava in ambulanza i sanitari avvisarono il cardiologo di turno – racconta l’avvocato – ma lo specialista, in base ai referti, non arrivò mai seppur allertato tempestivamente. Anche gli esami strumentali furono effettuati, come emerge dalla cartella clinica, in notevole ritardo”. E dopo la morte dell’uomo, che con il suo unico stipendio manteneva tutta la famiglia, per gli eredi (moglie figli e madre anziana), si è aperta una lunga odissea giudiziaria che ha portato, oltre 11 anni dopo, a vedersi riconoscere un risarcimento “inferiore di oltre un terzo rispetto alla richiesta iniziale – continua l’avvocato -. In questi lunghi anni i miei assistiti non hanno mai visto neppure un anticipo delle somme risarcitorie. Tra la sentenza di primo grado del 2019 e il ricorso in appello da parte dell’ospedale che si è concluso nel 2023, infatti, il tribunale, con una sospensiva dell’esecutività della sentenza di primo grado decisa su istanza dell’azienda ospedaliera senza sentire i danneggiati, ha bloccato il riconoscimento di qualsiasi somma a titolo di acconto. La decisione è stata motivata sul presupposto che la famiglia, non avendo alcun bene intestato, in caso di esito negativo del giudizio di appello, non avrebbe potuto offrire garanzie per l’eventuale restituzione. Come a dire più si è poveri e meno si è tutelati”.