L’universo di Giuliani Vangi è lì, nell’antico loggiato della Pescheria in un percorso che riunisce 96 sculture donate alla città dal maestro toscano. Un corpus di opere straordinarie: atto e potenza, forma e sostanza di una storia d’arte lunga quasi un secolo. Una storia d’amore. Linguaggio di una scultura che abita il mondo, oggi patrimonio di Pesaro, che restituisce la memoria dell’umano, le molte sfaccettature dell’esistenza, il racconto della natura, di uno sguardo sul visibile e sull’invisibile in quell’antico presente dalle forme straordinarie che sanno di nuovo, anzi d’antico. Espressione di una scultura come traduzione di un sentire profondo, di grandi interrogativi, di riflessioni sull’essere.
Il pathos che trasuda dai marmi, dai bronzi, dai gessi colorati per un esercizio plastico che restituisce la ricerca dell’equilibrio, l’energia del grande maestro. Potenza e inventiva creatrice, sublime realizzazione di forme per un grande viaggio intorno all’uomo. C’è il sindaco Andrea Biancani nella giornata inaugurale, il suo orgoglio per un evento che si configura non come una mostra, ma come una esposizione che rimanda al grande laboratorio dove Vangi ha lavorato, in attesa del museo a lui dedicato. La commozione della moglie Graziella, dei figli, i ringraziamenti nel nome della volontà del padre che Marco Vangi consegna al sindaco, all’amministrazione, a Elio Giuliani, deus ex machina dell’operazione.
C’è Marcello Smarelli che illustra l’ultimo progetto espositivo nell’attigua chiesa del Suffragio. Il pubblico è quello delle grandi occasioni a godere delle opere tutte che esprimono la forza, il coraggio, il dolore, la violenza, la compassione, e quella barbarie che troppo spesso caratterizza il fare degli uomini. In “Ares“, 2004, la sopraffazione fisica, la maschera brutale di un carnefice che non lascia scampo alla sua vittima. “C’era una volta“, 2005, l’inquietante gruppo scultoreo che restituisce l’orrore di una decapitazione. Memoria di un passato e presagio di un ritorno drammatico. L’imponenza dei due assassini dal mantello che ricorda lo stile di Manzù con il volto che sembra voler negare la loro identità, automi privi di coscienza, figure dipinte di grigio contrapposte ai colori vividi della testa mozzata.
E c’è “Katrina“ opera ispirata al terribile uragano che colpisce gli USA nel 2005. Il magma bronzeo, elaborato con grande abilità tecnica, la forza dirompente delle onde, l’impeto del vento, il dramma di vite spezzate, i corpi travolti dalla furia dell’acqua. Quando una figura dorata, una sorta di angelo in volo, ci consegna, comunque, la speranza. Non aveva ancora sette anni quando Giuliano cominciò a scolpire in solitudine delle figurine sul bordo del camino del nonno che gli aveva regalato mazzuolo e scalpello.
Per una vita intera proseguirà una indagine tra contenuto e forma, tra bellezza e poesia, tra stupore e meraviglia tra dolore e gioia nella esaltazione della complessità dell’esistenza. Ed ecco “L’uomo“, una figura sottile contempla un muro impossibile da oltrepassare. E’ un’opera del 2014, metafora della solitudine umana, della difficoltà di attraversare gli ostacoli con nobile compostezza, la virtù che era stata in grado di celare la grande forza interiore e creativa di uno come Vangi. E pare di vederlo camminare in mezzo alle sue creature, fermarsi davanti al suo “Uomo seduto su poltrona di cristallo“ mentre riguarda i bozzetti preparatori, le figure femminili e quelle forme imponenti capaci di far scaturire la sindrome di Stendhal. E pare sentirlo dire con accento toscano: “Questo crocefisso lo fo per una chiesa di Seul, un lavoro che porto avanti insieme a Mario Botta“.
E’ del 2010 “Uomo con mani“, un gesso dipinto che fa pensare alle mani come "finestra della mente" e una serie di opere dedicata alla donna: una “Marina nuda“ dal fare sicuro, le forme sensuali di una “Ragazza con capelli biondi“, le lacrime amare di una “Donna con paesaggio nero“, le rotondità del marmo rosa di una “Donna con cespo“ che ricorda lo stile di Botero. Giuliano Vangi immenso. Le sue opere come testamento che sfida l’eternità. Il ricordo delle sue parole: l’arte, il più grande atto di resistenza nei confronti della morte.