di Silvano ClappisNovant’anni fa nasceva a Fano, esattamente il 4 dicembre 1934, lo scrittore Luciano Anselmi, morto troppo presto nel 1996. Fano che non ha mai abbandonato, salvo una breve parentesi romana da giornalista e i periodici ritorni nei luoghi dei suoi avi, e cioè in quell’Arcevia definita "triste paese, che amo" (da “Molte serate di nebbia“, Bagaloni editore 1986).
Scrittore poliedrico, con opere teatrali, saggi, traduzioni, romanzi, poesie, gialli e perfino favole per bambini, Luciano Anselmi rispondeva così in un’intervista al poeta Francesco Scarabicchi che gli chiedeva conto di ciò: "Non credo che la mia attività poliedrica sia dispersiva. Scrivo ciò che mi preme scrivere, non importa se in prosa, dialoghi o versi. Se tutto questo è dispersivo, ebbene vuol dire che sono uno scrittore dispersivo. Che vogliamo farci?".
Difficile distinguere la sua vita dai personaggi delle sue opere – Niente sulla piazza (1960), Gramignano (1967), Un viaggio (1969), L’Ospite (1971), l’enigmatico capolavoro Storie parallele (1973), Gli anni e gli anni (1977), Piazza degli Armeni (1982) solo per citare alcuni dei suoi romanzi – perché Luciano Anselmi è lo stesso protagonista che emerge dalle sue storie, dalla cifra stilistica del suo linguaggio, dalle parole che usa, perfino nella traduzione delle lettere di Marcel Proust, il suo mentore e al tempo stesso lo scrittore da lui più venerato.
In tutta la narrativa di Luciano Anselmi "sono costanti, e talvolta coesistenti – scrive Valerio Volpini altro grande fanese del nostro Novecento letterario – due riferimenti geografici: una città di mare rasata dalla bora in inverno e animata dai forestieri in estate e poi un borgo antico dell’alta collina a ridosso dell’Appennino… Non c’è bisogno di dire che sono i luoghi ove vive...".
Anselmi, dunque, è un piccolo mondo chiuso, la vita e le storie che racconta circolano in una topografia ben definita che, chi lo ha conosciuto come il sottoscritto, non può fare a meno di conoscere. Riferimenti precisi, come, ad esempio nella poesia che Anselmi dedica ad un altro suo grande maestro, George Simenon: "Lungo i canali a bordo di una chiatta/arrivi a Parigi costeggiando le case dei fiamminghi/stoppose e sterili/il dottor Pardon ti misura la pressione/con apparecchi antichi tra fumi di bistrot/e rognoni in potacchio; gli amici d’infanzia/abitano, oggi, ville tetre e damascate/dalle parti di Concernau, tra i rabbuffi dell’Atlantico./Sei là col tuo Maigret: una pipa, due pipe/il raffreddore di testa, il paletot nero; annusi/poveracci senza madre/senza moglie e senza amici./In rue Delorme c’è un vecchio pazzo; alle Halles/hanno assassinato una ragazza/Maigret" (I poeti dagli occhi di opossum, Camunia 1987).
Ne è testimone un amico degli anni giovanili, il regista Leandro Castellani: "Ci vedevamo quasi ogni sera, dopo cena, per lunghe passeggiate notturne, scambiandoci progetti e sogni. Giù per il Corso sino alla Liscia, viale Cairoli, il passaggio a livello, aperto fra un treno e l’altro oppure con le sbarre da scavalcare, come del resto facevano tutti, e avanti sino alla punta del Moletto, quello della foce dell’Arzilla. Nel corso degli anni Luciano Anselmi ha smesso di coltivare sogni, ma le camminate notturne sono proseguite, in Sassonia, partendo dal Caffè Centrale o dal “Vicolo“, ritrovo di nottambuli di una Fano oggi scomparsa. Dove sta allora la grandezza di Anselmi? Semplice: nella piccola storia che diventa grande storia perché è la realtà che, inconsciamente, viviamo tutti".