Pesaro, 16 giugno 2018 - In California non mollano sul Lisippo. «Appartiene alla gente di Los Angeles» è la stata la dichiarazione di un portavoce del museo. Semplicemente, il Getty non riconosce il valore dell’ordinanza di confisca decisa dal gip di Pesaro. E ieri, un esponente del museo californiano Ron Hartwig ha detto: "I fatti non richiedono la restituzione della statua all’Italia. Faremo ricorso in Cassazione". Hartwig ha aggiunto che c’è una «forte e fruttuosa relazione con il ministero dei beni culturali e con i colleghi dei musei italiani». Il sostituto procuratore di Pesaro Silvia Cecchi, che da 11 anni lotta con le armi della legge per riottenere il bronzo ripescato in Adriatico nel 1964 dal peschereccio fanese ‘Ferruccio Ferri’, afferma: «L’annunciato ricorso in Cassazione da parte del Getty museum non ci preoccupa affatto. Utilizzano tesi consunte, dibattute e giudicate. E sappiano che passati altri sei o sette mesi, i rinvii saranno finiti per sempre».
Il sostituto procuratore Silvia Cecchi della procura di Pesaro si dice certa dell’esito finale del contenzioso col Getty: «Il dottor Giacomo Gasperini, l’ultimo gip che ha emesso l’ordinanza di confisca, ha riconosciuto che il bronzo è stato ripescato in acque nazionali. I vertici del museo si è auto vincolato alla restituzione delle opere trafugate di cui siano venuti in possesso dopo il 1970. E l’‘Atleta vittorioso’ è stato trafugato dall’Italia. E’ in nostro possesso anche una concrezione dell’opera. Abbiamo sempre mantenuto la schiena dritta in questa vicenda, perché siamo certi di quello che abbiamo sostenuto e delle prove in nostro possesso. Vogliamo solo che si rispetti la legge. Il ricorso in Cassazione è un sacrosanto diritto del museo, ma è un nostro dovere pretendere che un’opera trafugata dall’Italia sia riconsegnata al nostro Paese, come è accaduto con altre sculture in passato. L’unica differenza è che l’Atleta vittorioso è l’opera più bella».
Vale la pena di ricordare che il ricorso in Cassazione non signifa entrare nel merito della vicenda, ossia se la scultura sia stata pescata o meno in acque nazionali, trafugata e comprata dal Getty consapevole o meno di acquistare un’opera rubata al patrimonio italiano. La Suprema Corte sarà chiamata a stabilire se ravvisa un mancato rispetto della norma nei vari gradi del procedimento. Nel giugno di tre anni, la Corte Costituzionale a cui si era rivolta la Cassazione per avere lumi sull’istanza della difesa che censurava l’udienza a porte chiuse, sancì che occorreva trasparenza come impone la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo secondo la quale «...la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette alla giurisdizione contro una giustizia segreta che sfugge al controllo del pubblico». Così la sentenza 109/2015 della Consulta, presidente Criscuolo, redattore Frigo, accolse di fatto le rimostranze degli avvocati del Getty che contestavano l’udienza in camera di consiglio che si era tenuta a Pesaro ritenendo incostituzionale una parte dell’articolo 666 comma 3 del codice di procedura penale. Al tempo, il gip Maurizio Di Palma, scrisse: «...deve ritenersi accertata l’esistenza di un preciso collegamento tra il reato di esportazione clandestina e l’attuale detentore». Il gip Gasparini ora, il terzo in ordine cronologico a firmare la confisca, scrive a pagina 28 dell’ordinanza: «...il luogo del ritrovamento è da collocarsi in acque territoriali italiane sulla base delle dichiarazione rese nel dicembre 1977 dal capitano dell’imbarcazione Romeo Pirani (eravamo «a poche miglia dalla costa in zona di utilizzo dlel reti per la pesca a strascico che notoriamente non avviene in fondali profondi»). Il capitano Pirani – scrive il giudice– nel renderle, si accusava di furto del reperto archeologico e ciò accresce la sua credibilità».