Siamo a San Miniato nel 1952, il ventiduenne Glauco Mauri è al suo debutto di attore teatrale professionista. Si recita "I dialoghi delle carmelitane scalze" di Bernanos, roba tosta, c’è poco da scherzare, in cartellone ci sono i santoni del dramma italiano. Gli è affidata l’apertura, ed ecco i fatti raccontati da lui: "Sono solo in scena, dietro di me schierate un gruppo di suore e tutti gli altri personaggi, devo dire la frase ‘A un tratto alcune casse di razzi si incendiano e gli scoppi si susseguono’ ... invece dico ‘A un tratto alcune casse di cazzi si incendiano e gli scoppi si susseguono’". Gli animali sacri non sono manco scalfiti da queste schegge di normalità, gli animali sacri sono quelli per i quali il destino prevede che tornino a morire là dove nacquero, così come Mauri è tornato a morire a casa: il "De profundis" al Teatro Rossini era il suo, non di Oscar Wilde. C’è da credere che tutto questo sia stato l’episodio più pregnante a segnare in maniera significativa l’Anno pesarese della cultura: uno dei suoi figli più grandi, un artista che ha tracciato un sentiero sempre lontano dai facili successi, serio, a volte anche impervio e impopolare ricordando e facendo ricordare che la complessità può anche non essere giocattolo per intellettuali ma specchio della complessità della vita parla qui per l’ultima volta.
Quando fin negli anni Sessanta del 1900 sua madre era viva, lui tornava d’estate a Pesaro con un solo grande imperativo: dimagrire, perdio, devo dimagrire, ma non mi ricordo manco uno di quegli anni in cui sia poi ripartito avendo perso un etto. Due ore di tennis sotto il solleone d’agosto nulla potevano contro decine di coca cola e le mastelle di gelati del Bar del Fiore. O i fagioli di sua madre nella casa di Rue de la Paix, come Glauco, con la erre arrotondata alla parigina, chiamava la piccola e chiusa via della Pace laggiù nel Borgo. Una sera fece di più, mentre un branco di allupati spezzava culi di pane nei fagioli, accese il giradischi – allora quello c’era – e imponendo il silenzio invitò tutti a mangiare ascoltando quelle note: era l’adagio della Nona di Beethoven che naturalmente non scalfì manco un po’ la corazza di quelle bestie, mentre lui, al limite della commozione, invece di scandalizzarsi, seguiva con grande simpatia e partecipazione tutta la scena. Qualcuno di noi si preoccupò e gli chiese se era tutto a posto. Glauco assicurò che andava tutto bene e che il connubio fagioli-Nona di Beethoven era uno degli accostamenti che maggiormente segnavano la svolta artistica di quegli anni. E’ il nostro Chaplin, ha detto di lui un grande regista teatrale, adesso a fare la sua parte nel migliore dei modi, spetta alla città. La strada per Roma non ha più senso.