Pesaro, 1 ottobre 2023 – “Ho portato mio marito all’ospedale. E mi è stato restituito in condizioni peggiori di quando era arrivato". Non ha intenzione di lasciar perdere Michela Guiducci, 53 anni di Pesaro. Ha sporto querela ai carabinieri per "omissione di soccorso" e si è rivolta a un avvocato per avviare una causa civile. Perché da un semplice dolore inguinale, dopo una serie di accadimenti le cui responsabilità sono al momento tutte da dimostrare, suo marito si è ritrovato in terapia intensiva.
Tutto inizia il 27 di agosto, quando il marito di Michela, Aurelio Diamantini, 69 anni, si reca al Pronto soccorso di Pesaro per un dolore inguinale, causato da una ciste infetta. Sono le 10 di una domenica d’estate: Aurelio aspetta il suo turno, viene sottoposto ad accertamenti, dopodiché rispedito a casa. Gli prescrivono 3 antibiotici al giorno e tachipirina per far scendere la febbre che lunedì era ancora a 40. Dopo qualche giorno senza che la terapia sortisca alcun effetto – la febbre non scende sotto i 39/40 gradi e Aurelio è in uno stato confusionale – il 30 agosto la moglie è costretta, dopo essersi consultata con il medico di famiglia, a chiamare il 118.
L’ambulanza arriva e porta Aurelio a Pesaro. "Erano le 3 del pomeriggio – racconta –. Gli operatori mi hanno detto di aspettare la loro chiamata. Che è arrivata alle 23.30, quando mi hanno detto di andare a prendere mio marito in ospedale". Ma quando Michela vede suo marito, stenta a riconoscerlo. "Sembrava ubriaco – racconta –, cadeva, non si reggeva in piedi, si doveva aggrappare dappertutto. Non era più lui, non si controllava, nemmeno nelle sue funzioni fisiologiche. E aveva sempre 40 di febbre. Venerdì primo settembre ho dovuto per forza di cose richiamare il mio medico: è venuto a casa, ha riscontrato che mio marito era confuso, tachicardico... Ha chiamato subito l’ambulanza e sono venuti a prendere nuovamente mio marito, mentre il mio medico si domandava perché l’avessero rimandato a casa. Ha fatto un foglio per chiedere di consentirmi di restare accanto a mio marito, visto che era così agitato, ma non è stato possibile. Erano le 4 del pomeriggio. In serata l’hanno ricoverato in Medicina d’urgenza".
Lì, arriva un’altra brutta notizia: "La sera la dottoressa mi chiama e mi dice fondamentalmente che per mio marito le cose non stanno andando bene: gli avevano fatto altri esami ed era emersa una polmonite che gli dava quella febbre alta. La dottoressa, perlomeno molto scrupolosa e gentile, ha voluto fare una risonanza magnetica. Comunque, la domenica mio marito è finito in Rianimazione". Si scoprirà che la polmonite era stata probabilmente provocata dalla legionella: "Un batterio che sono sicura mio marito abbia preso in ospedale" dice Michela. Dopo una settimana in Rianimazione, Aurelio torna in Medicina d’urgenza. Il 16 settembre viene dimesso in condizioni definite "discrete". Ma per Michela la realtà è un’altra.
“Si era un po’ ripreso, sì, ma aveva sempre la tachicardia, non camminava bene.... Tutt’ora ha bisogno di un carrello. Infatti gli è stata prescritta una fisioterapia da fare a domicilio". Ma non è tutto. "Gli ho trovato addosso molti lividi. Non so cosa sia successo, forse quando era in stato confusionale è stato strattonato, forse non riuscivano a tenerlo fermo... Quello che so è che ho portato mio marito in ospedale con una ciste e l’ho ritrovato 10 giorni dopo con lividi, confuso, semi-invalido. Non è sanità questa. Ecco perché sono andata dai carabinieri: mi hanno detto che non c’era bisogno, che bastava che andassi dall’avvocato. Ma io ho insistito. Perché questa cosa – conclude Michela –, al di là del mio caso, non deve più succedere a nessun altro".