
Chiedeva soldi ai clandestini per essere regolarizzati. A processo parrucchiere 50enne
Quasi 4mila euro per uscire dalla clandestinità e ottenere il permesso di soggiorno. Era la cifra che 5 cittadini cinesi erano disposti a sborsare per poter regolarizzare la propria permanenza in Italia e trovare un lavoro. Il sistema che avrebbe favorito le tasche di un parrucchiere italiano di 50 anni residente a Serra Sant’Abbondio e un intermediario di origine cinese di 40 anni indagato a Prato per la stessa vicenda, era molto semplice e, secondo l’accusa, altrettanto remunerativo. E’ la vicenda di cui si è discusso ieri dinanzi al tribunale collegiale di Pesaro.
Nel 2020 il decreto rilancio aveva dato la possibilità di inoltrare domande di emersione per clandestini che potevano dimostrare di avere un lavoro in Italia. Nell’arco di una finestra temporale ben definita era possibile inviare le domande online a cui avrebbe fatto seguito un’istruttoria da parte della Prefettura che si sarebbe conclusa con la concessione del permesso di soggiorno. Ma c’è chi, come uno dei due imputati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, ci avrebbe lucrato sopra arrivando a chiedere fino a 4mila euro per ciascuna pratica di regolarizzazione.
L’indagine del Nucleo Tutela Lavoro dei carabinieri di Pesaro ha però indagato su quelle 5 domande, che facevano capo ad un unico datore di lavoro, il parrucchiere di Serra Sant’Abbondio, appunto, individuando un potenziale illecito da diverse migliaia di euro. Ieri in aula è stato ascoltato il luogotenente Fabrizio Notarnicola, del Nucleo Tutela lavoro dei carabinieri di Pesaro che ha indagato sulla vicenda. "Nella domanda di emersione veniva presentato un fatturato di 30mila euro per un’azienda di allevamento lumache, dove i cittadini cinesi avrebbe prestato servizio, in un terreno agricolo a Serra Sant’Abbondio, che di fatto non esisteva – ha illustrato il luogotenente –. L’intermediario, indagato a Prato, rimediava ai clandestini in cerca di regolarizzazione, il nominativo dell’altro imputato di origine italiana che, dietro compenso, si fingeva datore di lavoro per fargli ottenere il permesso. Tra i clandestini c’erano anche due coniugi. Abbiamo interrogato il marito, oggi anche lui imputato per non aver collaborato con la polizia giudiziaria nel corso delle indagini, che ha detto di non conoscere affatto quello che doveva essere, sulla carta, il proprio datore di lavoro e che in provincia di Pesaro e Urbino, lui, non c’era mai stato perché viveva a Prato".
Antonella Marchionni