REDAZIONE PESARO

Carlo Iacomucci e il segno delle origini, dalla Scuola del Libro l’amore per l’incisione

"Mi sono formato con grandi maestri e la mia opera rappresenta molto Urbino. Ma noto che neanche io sono profeta in patria"

"Mi sono formato con grandi maestri e la mia opera rappresenta molto Urbino. Ma noto che neanche io sono profeta in patria"

"Mi sono formato con grandi maestri e la mia opera rappresenta molto Urbino. Ma noto che neanche io sono profeta in patria"

di Giovanni Volponi

C’è un artista urbinate che dal 1973 porta, assieme al suo, il nome della città ducale in mostre, premi e cataloghi in tutto il mondo. È nato nel 1949 di fronte a Urbino, Carlo Iacomucci: sulle colline poco distanti dal convento di San Bernardino. Da qui è partito per varie città, insegnando, incidendo e dipingendo.

Come è nata la sua passione per l’arte?

"I miei genitori erano contadini, ma i campi non facevano per me, fin da piccolo. Così già a tredici anni andai d’estate ad aiutare mio fratello che faceva il fabbro alla bottega di Meli. Mi iscrissi alla Scuola del Libro, sezione metalli. Una Scuola di grande tradizione e prestigio, con maestri come Fuffi Santini, Marcello Lani e altri, che mi ha lasciato tanto. Per fare disegno dal vero i professori prendevano un anziano in piazza, lo portavano a scuola e noi disegnavamo. E a volte noi li emulavamo, trovando dei modelli al colle dei Cappuccini".

E finita la scuola?

"Andai a Roma per il servizio militare. Quando avevo la libera uscita, anziché divertirmi andavo a frequentare le stamperie d’arte, dove c’erano degli amici urbinati. È lì che è scattata una molla, il desiderio di approfondire un ramo che in realtà a scuola, nella mia sezione, avevo trattato poco. Quindi, tornato a Urbino, feci un corso di incisioni col professor Piacesi. Finalmente avevo capito qual era la passione della vita".

E poi?

"Un giorno la segreteria della scuola urbinate mi contattò per presentare il mio curriculum artistico al ministero: in ballo c’era un posto all’Accademia di belle arti di Lecce".

Lo ottenne?

"Sì, per due anni ho insegnato lì anatomia disegnata, anche se all’inizio non mi sentivo all’altezza".

E come ha fatto?

"Ho ricominciato a studiare. Quindi mi sono accorto che la preparazione l’avevo e tutto ciò che avevo assorbito quasi senza comprendere ora tornava fuori".

E dopo?

"Andai al Liceo Artistico di Varese, dove conobbi la mia futura moglie, anche lei insegnante, marchigiana di Treia, laureata a Urbino. Quel contesto mi ha lanciato definitivamente a livello culturale e lavorativo. Infine, ci siamo trasferiti a Macerata dove vi era un miglior ambiente per crescere una famiglia. Da dopo la pandemia vivo a Monsano (Ancona), accanto a figlia e nipoti".

Che tecnica predilige?

"Dico sempre che sono un incisore, e quando non incido dipingo".

Che soggetti riproduce?

"La mia poetica è molto gestuale, i segni dominano, ma ho assorbito molto quello che avevo vissuto in campagna. Il paesaggio è tra il sogno e la realtà: cerco sempre di andare oltre quello che è la riproduzione del reale. Ho dei miei simbolismi, che agli inizi erano gli spaventapasseri mentre oggi sono dei personaggi posti su dei piedistalli da atelier, con sembianze e vesti nobili e antiche. Sicuramente un retaggio della presenza del Duca all’interno del palazzo ducale dove studiavo".

Ma anche l’aquilone è spesso presente…

"Dagli anni ’80 lo inserisco sovente, sempre legato a un filo. Il motivo è che a casa mia c’è sempre stato, ed è un simbolo di libertà e speranza. Il vento che muoveva le foglie è invece rappresentato da segni. Poi col tempo ho inserito sette gocce o tracce che rappresentano i sette colori della luce".

Quante mostre in carriera?

"Tantissime, sia in Italia che all’estero. Dagli anni Ottanta ho trascorso brevi periodi a Parigi, Praga, Strasburgo, Londra. Ho esposto nel 2018 alla Biennale di Venezia per regioni, e al Premio Marche per due volte".

La soddisfazione più grande?

"I tanti riconoscimenti, dal premio “Marchigiano dell’anno“ a Roma nel 2014 all’onorificenza di Commendatore dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana per motivi artistici e culturali nel 2021. Ma le conferenze danno altrettante soddisfazioni".

Ovvero?

"Da vari anni tengo delle lezioni sulle tecniche dell’incisione (ovvero xilografia, calcografia e litografia): spiego la loro origine, il loro uso principale, che fu industriale e per la comunicazione, e ovviamente il lato artistico, narrando in particolare l’acquaforte, con tutti i suoi passaggi fino all’ottenimento della stampa finale. Sono dei momenti bellissimi che catturano la curiosità della gente".

Vede nuove leve nel suo settore?

"Sinceramente non vedo in giro molta gente che “sente“ la tecnica dell’acquaforte. È ormai di nicchia; spero che non vada a sparire".

A Urbino cosa la lega?

"La giovinezza, i parenti, gli amici. Purtroppo, lavorativamente, nulla. Nessuno è profeta in patria".