Ercolani *
Nessuno al pari di Federico Barocci è riuscito a esprimere in termini iconografici la suggestione di immaginare Urbino come un elastico ideale. Lo ha fatto attraverso la raffigurazione dei due torricini del Palazzo Ducale, sempre in secondo piano, in alcune delle sue opere più numinose e rappresentative. Penso alla “Madonna della gatta“, al “Riposo durante la fuga in Egitto“, alla “Sepoltura di Cristo“ o alla magnifica e commovente “Annunciazione“.
Proprio i torricini, innalzantisi in uno sfondo di luce meno accesa in confronto alla scena principale, che sembrano esprimere al tempo stesso lo struggimento malinconico e la forza di una radice inestirpabile, rappresentano quel laccio ideale. Una condizione dell’anima che per quanto uno possa essersi allontanato mentalmente o fisicamente, da un luogo fisico o ideale, lo spingerà prima o dopo a tornare in maniera irresistibile. Federico aveva sperimentato in prima persona gli effetti di una tale energia invisibile, sentendo il bisogno di ritornare nella sua Urbino dopo una breve parentesi romana e rinunciando al contesto internazionale che la Capitale gli avrebbe offerto. Per di più in un momento storico in cui la città era tanto illustre quanto declinante.
Questa scelta inconsueta, potenzialmente limitante, non gli impedì di diventare il più ammirato e pagato autore di dipinti sacri a cavallo tra XVI e XVII secolo, un autorevole pontefice fra la tradizione di armonia rinascimentale – espressa da mostri sacri come Raffaello, Tiziano e Michelangelo – e la più tormentata arte barocca che sarebbe esplosa di lì a breve. Urbino, laccio ideale dell’anima barocciana, lo ha ripagato come meglio non si sarebbe potuto. Con una mostra raffinata che, anche grazie alla scelta coraggiosa delle luci soffuse e delle pareti scure, ha magistralmente esaltato sia i giochi di chiaroscuro sia l’esplosione di colori con cui Barocci raffigura al tempo stesso le radici rinascimentali a cui si ispira e il rutilante barocco verso cui è capace di proiettare l’arte. Colui che seppe resistere ai fasti nonché alle relazioni altolocate offerti da Roma, fu anche l’artista che – seppure nell’alveo della fedele e devota rappresentazione degli ideali della Controriforma – non si fece mai cantore passivo del potere della Chiesa, rivolgendosi alle corde profonde degli umili e di coloro che patiscono il grande mistero dell’esistenza.
Quando sono uscito dalla mostra non ho potuto fare a meno di percepire anche il mio di laccio, quello che mi riporta sempre e comunque a questa meraviglia incastonata sull’Appennino marchigiano. Che poi è anche quello dei tanti studenti che, magari dopo molti anni, mi chiamano per avvertirmi che stanno tornando a visitare il luogo incantato dove un “piccolo“ ma autorevole Ateneo ha aperto loro la strada per professioni in tutto il mondo. Il Fiori lo sapeva bene, in un certo senso aveva previsto tutto. Se non altro perché qualcosa di simile era successo anche a lui.
* (filosofo - Università di Urbino)