GIORGIO GUIDELLI
Cronaca

Addio ad Arnaldo Forlani, l’ex leader della Dc morto a 97 anni

Nato a Pesaro, è spirato ieri sera, attorno alle 22. Il dolore dei figli: "Perdita incolmabile". Pioggia di messaggi nella casa all’Eur

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Pesaro, 7 luglio 2023 - Appollaiato, di sfuggita, sul sedile posteriore. Davanti a lui, un ‘marcantonio’, stempiato amico d’infanzia, nientendimeno che il babbo di ’Digio’, Don Marco Di Giorgio, che tiene in pugno l’auto blu: una moto che tossicchia sui polverosi vialoni romani del Dopoguerra. Non aveva lampeggianti, il primo mezzo di scorta di Arnaldo Forlani. E’ lì, spalmato su una foto seppiata dell’era post-bellica, che tenta il sorpasso su un carretto pieno zeppo di fusti d’olio. Ieri, Arnaldo Forlani, 97 anni, se n’è andato, con altrettanta discrezione con cui ha vissuto, attorno alle 22. Si è come addormentato, dopo un giorno che non era stato più bene. "Ha lasciato un grande vuoto – parla anche per conto dei fratelli, Luigi e Marco, suo figlio Alessandro, ex senatore dell’Udc – per noi figli è stato un esempio. Come lo è stato per tutti. Sarà difficile colmare questo vuoto". Ieri sera, attorno alla mezzanotte, i parenti erano tutti attorno alla sua casa dell’Eur. Tra i primi a telefonare, per le condoglianze, Casini, Rotondi e tanti amici della vecchia Dc.

Il viso pallido di Pesaro, laurea in giurisprudenza, giornalista da pamphlet, in quella foto d’epoca prendeva, come si usava dire nelle magre Marche rurali, la strada per Roma. Così come tanti suoi conterranei. Ma il suo non era un viaggio di speranza: era la via che lo consacrava alla politica. Debuttò nel modesto oratorio della Dc pesarese (segretario provinciale, poi consigliere provinciale e comunale), abituato a lottare coi denti con le cattedrali rosse d’una città che non ha conosciuto mai altro colore. Ma in quell’agone manicheo, scelse il “giusto mezzo”. Gliel’avevano insegnato quando scendeva in campo, quando ancora Berlusconi non aveva inventato quel modo di dire. Perché Forlani, sul campo, era sceso, prima della politica, con la maglia della Vis. Giocava mezzala, era abituato agli assist, ai fraseggi col pallone al centro, sempre al centro, anche nei match più beceri. In politica, la medianità, era un gioco da ragazzi. Così, sospinto dall’occhio vigile di Fanfani, nel ‘54 ebbe il suo battesimo nella direzione Dc. E partì il cursus honorum: la direzione della Spes (sezione studi, propaganda e stampa della Dc), con la parola d’ordine, quasi in chiave prerenziana, della ‘comunicazione’. Allora i pigolii d’un tweet, erano i fruscii di opuscoli lapidari e manifesti, a volte disegnati pure da Fanfani in persona. Il giovin signore pesarese salì poi sulla schiena della balena bianca, seguendone le correnti e gli spiaggiamenti, ma sempre seduto, più o meno, al centro. La sua fu una politica sussurrata per non dire silente, ma sapientemente logorroica quando era l’ora della prudenza. Eppure, negli anni Settanta, e anche dopo, fu il solo a uscire dal coro delle verbosi sfingi di nulla. Il 15 gennaio 1981, in piena emergenza terrorismo, in un discorso alla Camera, osò: "Nessuno può partire da una presunzione che escluda collegamenti internazionali e coordinazioni esterne". Il monito a chi sapeva era chiaro.

Ministro delle partecipazioni statali, della difesa, degli affari esteri, vicepresidente del Consiglio, fu presidente del Consiglio dei Ministri. E anche lì dovette giocare da mezzala: dal 18 ottobre ‘80 al 28 giugno 1981, la partita fu peggio d’una finale di Coppa del Mondo: si trovò nella palude del terrorismo più feroce, dei sequestri (anche quattro in una botta sola) e del polverone delle liste P2, che lo portò alle dimissioni. Poi, tra scossoni, ondate e lotte di correnti e controcorrenti, arrivò l’età aurea: quella del Caf. L’asse politico Craxi, Andreotti, Forlani accompagnò il Paese fino alla Seconda Repubblica. In mezzo Forlani sedette sul trono della Democrazia Cristiana: fu segretario dal febbraio 1989 all’ottobre 1992, prima di cedere il testimone a Mino Martinazzoli. E mentre il cuore del Paese veniva sconquassato dalle stragi mafiose, il viso pallido di Pesaro fu a un passo dal Quirinale. Ma, sul dischetto, fallì il gol della vittoria. Perché accadde quello che accadde: che i franchi tiratori del suo partito gli sbarrarono il passo per l’elezione. Dopo una duplice sconfitta, Forlani ritirò la candidatura. Fuori, però, imperversava un’altra burrasca: Mani Pulite. Al processo Enimont, Forlani dovette rassegnarsi ancora alla sconfitta. Ma con il sangue sportivo nelle vene, disse di ritenere ingiusta la condanna e di accettarla come la sua cicuta da bere. Discreto anche nella caduta, seguì la sua vocazione di mezzala operosa. Scelse di eclissarsi. La miglior parola era il silenzio. Forse lo aveva sempre pensato. Anche quando lo stadio della sua politica era pieno, disse: "Io credo che la politica soffra di parecchi mali, ma uno dei mali più gravi è la tendenza a trasferire tutto in termini di propaganda, di esibizione e di retorica". E in silenzio se n’è andato. Come quel giorno qualunque del Dopoguerra, su quella moto. Senza bisogno di lampeggianti. Senza bisogno di sirene blu.