Non so se vi è mai capitato di abbandonare un libro per poi ripensarci perché ci avete riflettuto oppure perché qualcuno vi ha illuminato la mente. A me è successo con l’ultimo romanzo di Richard Ford (’Per sempre’, ed. Feltrinelli, pagine 355). Se poi chi vi schiarisce i pensieri è uno dei vostri scrittori preferiti, è ancora più probabile mettersi in discussione. Nel mio caso, faccio riferimento ad Alessandro Piperno che ha scritto: "(Richard Ford) attratto dalle domande senza risposte, i rebus privi di soluzione, i sentieri interrotti, non scrive libri per elargire al lettore patetici premi di consolazione. Lo fa perché
non può esimersi dal farlo e quindi nel modo più onesto e scorbutico". Ecco allora che lo stile scarno, la fissità delle situazioni, la pedanteria nel classificare ogni cosa, si colorano di una luce diversa. Frank Bascombe, invecchiato con noi dal momento che il primo romanzo che lo vede protagonista risale a 40 anni fa, è un tipo qualunque, certo non un eroe. Scrittore affermato poi dimenticato, in seguito giornalista sportivo, infine agente immobiliare perseguitato dalla sorte (morte di un figlio di 9 anni, divorzio, cancro) si trova a intraprendere un viaggio con il figlio maggiore Paul malato di SLA. Il viaggio verso il Dakota per vedere il monte Rushmore con i volti dei presidenti USA scolpiti nella roccia, cerca di rimediare a un rapporto da sempre problematico. Il romanzo è tutto qui, nella descrizione di quanto sia difficile quando tutto rema contro, tessere una relazione al limite della sostenibilità tra un padre e un figlio che si parlano realmente per la prima volta, portando il lettore dentro al disagio e all’afasia; di quanto sia complicato trovare gli strumenti per offrire un supporto psicologico a chi sa che la vita è al capolinea. Uno degli aspetti che più mi aveva irritato nella prima lettura era la minuziosa descrizione di luoghi e cose, all’apparenza superflua (come il nome di tutti i negozi di un centro commerciale). Ma Bascombe (e forse anche Ford), citandolo in modo maniacale, vuole dirci di non appartenere più al paesaggio circostante e a un mondo diventato insulso. Claudio Gavioli