Simone
Scagliarini*
L’idea imporre lavori socialmente utili a studenti violenti suscita perplessità anche sul piano giuridico-costituzionale. È vero che la Costituzione indica il lavoro, all’art. 4, come oggetto non solo di un diritto ma anche di un dovere, sicché l’impegno di concorrere, con la propria attività, al progresso materiale o spirituale della società costituisce senz’altro un obbligo (o spesso un onere, come contropartita di una prestazione offerta dallo Stato).
In questo senso, la legislazione in diversi casi ha previsto – e correttamente – la decadenza sia da ammortizzatori sociali che persino dall’obbligazione alimentare laddove la persona rifiutasse un lavoro adeguato alle sue capacità e ai suoi studi. Ma attenzione! Il dovere al lavoro viene pur sempre affermato dalla Costituzione nel rispetto delle possibilità e della libertà di scelta di chi vi è assoggettato. L’esempio dell’ambito penitenziario è emblematico, poiché persino per i condannati le convenzioni internazionali, oltre che la Costituzione, vietano lavori forzati di carattere degradante. Il lavoro, insomma, su cui è fondata la Repubblica – e il discorso vale, è appena il caso di precisarlo, per qualunque lavoro – non può essere usato come forma di umiliazione con finalità punitiva, ma nell’impianto della nostra Carta esso è, esattamente all’opposto, lo strumento che dà dignità a una persona, consentendole di partecipare al progresso del proprio Paese. Ben venga, quindi, il ricorso ai lavori socialmente utili anche come proposta alternativa agli studenti che manifestino comportamenti violenti, se con questo si attribuisce al lavoro il ruolo che ha di promozione della persona; assai meno allineato allo spirito della Costituzione, invece, sarebbe un obbligo di svolgere un’attività lavorativa, utilizzato solo in funzione sanzionatoria.
*Docente Unimore
Diritto pubblico