ALBERTO GRECO
Cronaca

Padre e figlio alla conquista del Kilimangiaro

Enrico e Carlo Alberto Molinari sono partiti da San Felice. "Tanta fatica, ma raggiungere la vetta insieme è stata un’emozione unica"

Da sinistra, Enrico Molinari, 60enne e il. figlio Carlo Alberto, 28 anni durante la loro avventura

Da sinistra, Enrico Molinari, 60enne e il. figlio Carlo Alberto, 28 anni durante la loro avventura

Modena, 12 novembre 2024 – Impresa sportiva di due sanfeliciani, Enrico Molinari, 60enne ingegnere elettronico medollese residente da 28 anni a San Felice, e del figlio Carlo Alberto, copywriter attualmente trasferitosi a Milano, cui è riuscita nel settembre scorso la conquista del Kilimangiaro, una vetta iconica per qualsiasi alpinista e la più alta cima dell’Africa con i suoi 5.895 metri.

L’avventurosa impresa è iniziata la sera del 4 settembre, ma prima ha richiesto una lunga preparazione.

Molinari, come vi siete preparati per un’avventura tanto lunga e piena di incognite?

"Nessuno dei due vantava una carriera sportiva né una forma fisica alla Messner, perciò ci siamo dovuti mettere sotto sei mesi prima e allenare per fare fiato e gambe e poi sperimentare l’altitudine sulle nostre Alpi ad agosto sul monte Rosa salendo sopra i 4.000 metri per due settimane. Ci è stato d’aiuto il dottor Luigi Vanoni, medico del Cai, che da una prima visita medica con macchinari specifici, ha simulato sul nostro corpo l’effetto della quota. Il referto è stato: allenatevi e in particolare fate acclimatamento in quota nei tre mesi precedenti la partenza. Poi ci ha seguito per tutto il percorso".

Quanto tempo avete impiegato a raggiungere la vetta?

"Sul Kilimangiaro si sale attraverso una serie di vie. Noi abbiamo scelto la Lemosho un percorso da sette giorni. La spedizione parte da Arusha, dove abbiamo incontrato la nostra squadra composta da due guide, sei portatori ed il cuoco. La loro energia ci ha conquistato subito e ci ha dato tanta carica. Si preparano viveri, zaini e tende per la settimana e poi si parte. Nei primi quattro giorni si sale da 2.000 a 4.700 metri, partendo dalla foresta pluviale con le scimmie che provano a entrare in tenda fino al ghiacciaio, attraverso una vegetazione che cambia ogni giorno. Il quinto giorno si sale di notte, si arriva in vetta a quasi 6.000 metri e poi si scende a 3.000 metri. In totale abbiamo camminato circa 75 chilometri".

Quale il momento più difficile?

"Il giorno dell’ascesa alla vetta è stato sicuramente il più difficile, ma l’emozione provata una volta raggiunta riesce a ricompensare tutta la fatica. Dall’ultimo campo, a quota 4.700, fino ad arrivare alla cima, abbiamo impiegato sei interminabili ore lungo un sentiero composto da rocce vulcaniche, scaloni e pietraie che rendevano difficile avanzare. Senza considerare l’altitudine che già dopo pochi minuti ha trasformato i nostri polmoni in ’noccioline’ facendoci ansimare ad ogni passo. Una volta toccata la fatidica insegna sulla vetta, Uhuru Peak, all’alba tutto lo sforzo si è trasformato in lacrime di felicità. Ma prima, il sentiero ci sembrava una trincea: gente che si rifugiava dietro qualche roccia e, in particolare, l’incontro con i primi sconfitti dalla montagna che con aria dolorante e affranta camminavano in senso opposto ritirandosi dall’impresa. Lì abbiamo vacillato".