I veri ‘inabili’ siamo noi quando non sappiamo aprirci all’accoglienza, all’ascolto, alla solidarietà. "La vera e profonda disabilità è l’egoismo che alimenta gli idoli del potere, del successo, del denaro e del piacere", scrive l’arcivescovo Erio Castellucci nel suo messaggio di Natale che abbiamo pubblicato ieri. A ispirare la sua riflessione è stata l’immagine di uno dei personaggi che popolano il gruppo scultoreo della "Madonna della pappa", realizzato alla fine del ‘400 da Guido Mazzoni e custodito nella cripta del Duomo. "Appena arrivato a Modena, partecipai a una visita al Duomo – ricorda don Erio – e mi colpì quanto venne segnalato dalla guida: fra le figure che attorniano la Madonna che tiene Gesù Bambino sulle ginocchia, non ci sono soltanto i due personaggi inginocchiati, forse i committenti, Francesco Porrini e la moglie, ma c’è anche una domestica che soffia sul cucchiaio con la pappa. La guida ci fece notare che i tratti di questa fantesca fanno pensare che fosse portatrice della trisomia 21, ovvero la sindrome di Down. Mi ha colpito immaginare che fosse proprio lei, una persona che oggi si direbbe disabile, a sfamare con tenerezza il piccolo Gesù".
‘Abilità’ e ‘disabilità’ sono le parole attorno a cui ruota il suo messaggio. Perché le ha scelte?
"Perché spesso incontro persone disabili o magari anziani non autosufficienti, e mi penso a cosa sia il Natale con loro e per loro. Mi sono reso conto che spesso coloro che la società definisce ‘disabili’ possono invece aiutare tutti noi a ‘riabilitarci’ nel nostro io più profondo".
In che modo?
"Coloro che possono godere di tutti quei doni che nel linguaggio comune qualificano i cosiddetti ‘normodotati’ spesso poi disabilitano le dimensioni più importanti della loro persona, come la capacità di condividere le risorse materiali, spirituali e intellettuali. E purtroppo la mentalità dell’avidità non riguarda soltanto le cose materiali. L’esempio delle persone disabili invece ridà ossigeno a tanti valori come il senso della fedeltà, la capacità di distinguere l’essenziale dal superfluo, l’importanza degli affetti. Da loro dobbiamo imparare ad ‘abilitare’ il cuore".
Siamo ormai alla vigilia del Giubileo. In che modo possiamo viverlo più intensamente?
"Come cristiani dobbiamo recuperare le radici della speranza che per noi sono ovviamente nella fede in Cristo risorto. In ogni ambiente della vita quotidiana, nelle case, nei luoghi di incontro o di cura, nelle strade, dobbiamo testimoniare questa speranza, superando la tentazione di entrare nella carovana delle lamentazioni che è sempre molto attiva ma ci conduce su binari morti. Noi cristiani non saremmo sale e luce se non testimoniassimo che il Signore c’è, è nato, morto e risorto, e che nel mondo si possono trovare anche tanti semi di bene che magari sono nascosti ma esistono".
Eppure, fra guerre, violenza, povertà, il mondo oggi non sembra invitare alla speranza...
"Non mancano certo le crisi (economica, ambientale, geopolitica, anche sanitaria) che creano sempre l’impressione che il mondo stia per finire. Ma ci sono davvero tanti segni di speranza che vanno innanzitutto scoperti, poi coltivati. La fede ci dà una possibilità in più per farlo, anche come servizio alla società".
Un esempio di speranza?
"Ci arriva proprio dai disabili. Ricordo che io avevo una zia disabile e, quando ero piccolo, non usciva quasi mai di casa, come se ci fosse la paura della derisione o dell’onta sulla famiglia. Oggi, grazie a Dio, abbiamo recuperato un atteggiamento completamente diverso e siamo consapevoli che le persone disabili possono accendere in noi la luce. Fra gli esempi di speranza, potrei dire anche tutte le esperienze di solidarietà attive nelle nostre comunità, il buon vicinato fra tante solitudini o la cura per gli altri che ho visto anche nei nostri ospedali, in medici, infermieri, volontari che hanno un cuore grande".
Sta per aprirsi anche un nuovo anno. Qual è un suo desiderio per il 2025?
"Mi piacerebbe che ci fosse una maggiore leggerezza nelle relazioni fra di noi, soprattutto nelle comunità cristiane, e che ci si appesantisse di meno in questioni secondarie per provare a sentirsi più prossimi a chi richiede un sorriso, una visita o un po’ del nostro tempo. A volte disperdiamo energie nel rattoppare gli strappi che ci facciamo a vicenda, e dimentichiamo che c’è una missione bella, quella di testimoniare che Gesù è risorto, a partire proprio dalla scioltezza delle relazioni".