
Pippo Delbono sarà in prima nazionale da stasera. al teatro Storchi con «Il risveglio»
"Amore" di Pippo Delbono si concludeva su un’immagine toccante: un uomo si assopiva sotto un albero secco che all’improvviso si ricopriva di fiori. Ma arriva poi il momento di riaprire gli occhi, di rivedere il mondo e di ritrovarlo magari peggiore di prima, con la pandemia, la guerra alle porte di casa, le ideologie che sembravano ormai sepolte e sono tornate ad affacciarsi. "Il risveglio" di Pippo Delbono (in prima nazionale da stasera a domenica 20 ottobre al teatro Storchi, che inaugura così la sua stagione) riparte proprio da quell’immagine. Delbono – artista residente di Ert, fra i più noti e apprezzati anche della scena internazionale – prende spunto da una ferita e dal riconoscimento di una fragilità: con il suo stile di sempre, la sua compagnia e il violoncello suonato dal vivo da Giovanni Ricciardi, racconta quindi "un nuovo dolore che lo ha invaso", indagando il sentimento universale della perdita. Pochi essenziali elementi abitano la scena, mentre gli attori e le attrici della compagnia danzano come in un rito sacro che assomiglia a un funerale. "Ti prego, luce che sei dentro di me, fammi risalire. Come le aquile prima o poi mi risveglierò", sono i versi di Delbono che sabato 19 alle 16.30, sempre allo Storchi, dialogherà con il saggista Gianni Manzella che ha dedicato un libro al suo pensiero e al suo percorso teatrale.
"Il risveglio" è un titolo che suggerisce un momento di passaggio. Qual è stato per lei il risveglio che ha ispirato il suo spettacolo?
"È stato un momento della vita abbastanza importante, difficile, dove ho lottato molto, e non è ancora finito. Ho passato sette anni nel buio, sette anni di dolore... poi a un tratto mi sono ritrovato invecchiato. Come quando ti risvegli da un sogno. E ho trovato un mondo intorno a me cambiato, peggiorato, ferito dalle guerre"
E qual è il risveglio che dobbiamo affrontare tutti? E da cosa dobbiamo risvegliarci?
"Penso che risvegliarsi sia prendere coscienza, prendere lucidità di chi siamo, di cos’è questo mondo, che cos’è questo potere, chi sono queste persone che ci guidano che ci comandano che fanno le guerre, prendere coscienza del potere dei soldi. Bisogna rendersi conto e svegliarsi, e questo vuol dire diventare lucidi".
Ma un risveglio può anche essere foriero di nuova sofferenza? Ovvero, al risveglio possiamo accorgerci che era meglio prima? E fa più paura il buio o la luce?
"È una domanda difficile: fa più paura il buio, secondo me. E no, è meglio quando ci si è risvegliati: ma il risveglio porta sempre con sé anche il dolore"
Siamo in un tempo di guerre alle porte dell’Europa, di nuovi conflitti, di tensioni sociali. Come vive tutte queste situazioni?
"Certi momenti non riesco a viverli addosso sulla pelle. Posso solo immaginare quanto grande sia il dolore di questa gente che scappa dai bombardamenti. Ho visto delle foto in cui un gruppo di studenti della Palestina ride, sorride, lì in mezzo alle macerie, e questo è bello, è forte".
Cinque anni fa è volato via Bobò, che per più di vent’anni è stato protagonista dei suoi spettacoli. Lei lo ha definito "padre, fratello, maestro". Quanto continua a essere presente nel suo lavoro? È vero che gli dedicherà un film?
"Sì, realizzerò un film su Bobò, perché la sua è una storia straordinaria, unica. L’avevo incontrato ad Aversa, nel manicomio dove è stato per più di quarant’anni. Un omino piccolo, sordomuto, analfabeta era al tempo stesso un uomo straordinario e un attore incredibile. Con lui, con i miei spettacoli e la mia compagnia abbiamo girato tutto il mondo. Bobò mi ha dato moltissimo e mi ha fatto molto soffrire quando se n’è andato. Ci ho messo cinque anni a riprendermi da quel lutto: per cinque anni non riuscivo a guardare nemmeno una sua immagine, non potevo sentire parlare di lui. Merita di essere ricordato e conosciuto un po’ in tutto il mondo".