È una mattina come tante, e una città si risveglia. In sottofondo le note di "Bella ciao". Tutti si tolgono il pigiama e il torpore della notte, si preparano, escono di casa. "Ed è proprio là, fuori casa, che comincia il loro viaggio", esordisce Emma Dante, fra le più ammirate registe di prosa, opera e cinema, che da domani a domenica 8 dicembre porterà allo Storchi la sua nuovissima creazione, "Extra moenia", fuori dalle mura, fuori dalla propria residenza, fuori dal quieto vivere. Un racconto, anzi tanti racconti, sulle miserie della nostra contemporaneità, guerre, disastri ambientali, odissea dei migranti, derive sovraniste e soprusi di ogni genere. Senza sconti e senza visioni edulcorate, ma sempre – come è nello stile dell’autrice – con una sguardo nitido, netto. E tagliente.
Chi ‘abita’ il mondo di "Extra moenia"?
"È una comunità eterogenea con tanti personaggi, dal ferroviere, al rider che consegna i pasti, alla donna ucraina scappata dalla guerra, all’iraniana con l’hijab, ma anche figure meno ‘politiche’, più comuni, la casalinga, una donna che cerca casa, una coppia di innamorati. Sono tutte figurine dei nostri tempi, raccontate in maniera surreale e anche grottesca. In scena ci sono soltanto loro, camminano... Soltanto alla fine della giornata questa comunità si troverà immersa in un mare di plastica lasciandosi andare alla deriva".
Qui si raccontano storie anche molto dure, di violenza, di ferite. Uno spaccato di questo nostro mondo?
"Non è uno spettacolo documentaristico, non vuole fare alcun tipo di proclama. È come uno sguardo dal finestrino di un treno su quello che accade nel mondo: certo, è uno sguardo a volte spietato, che non sorvola le cose o i problemi. È un susseguirsi di accadimenti, di sensazioni, come una matrioska: dentro a una situazione ce n’è già un’altra che a sua volta ne contiene una successiva..."
Ma lo sguardo può restare indifferente?
"No. Tutt’attorno gli orrori esistono ma noi, in qualche maniera, ne diventiamo complici se li ignoriamo, se non li affrontiamo e non li consideriamo parte integrante anche della nostra vita".
Il nostro presente è di certo inquietante. Lei ne è spaventata?
"È spaventoso ma ancor più spaventosa è l’indolenza che noi abbiamo costruito dentro le nostre vite. In fondo abbiamo l’illusione di avere tutto dentro casa, quando in realtà abbiamo nulla. Mi impressionano i giovani che non escono di casa e si fanno portare la cena a domicilio da rider sottopagati o sfruttati, quando invece potrebbero uscire di casa a mangiare un panino, incontrare altre persone. Il mondo è fuori ed è importante conoscerlo, parlarne e rifletterne insieme, e magari trovarsi insieme in un mare di plastica. O trovarsi con un migrante che sta morendo in mare, nel nostro stesso mare, e dargli una mano, invece di riprenderlo col telefonino".
Il suo teatro fa sempre discutere. E soprattutto dà una scossa...
"Io non voglio assolutamente far del male gratuitamente, non mi interessa. In realtà credo che si faccia del male soltanto chi vuole veramente aprirsi a quell’abisso che è l’essere umano. Tutti noi siamo pieni di miracoli, di pregi e di difetti, di sogni e di ricordi. Il teatro deve semplicemente risvegliare questi nostri tesori che portiamo seppelliti dentro di noi, ma lo spettatore e la spettatrice devono essere disposti a tirare fuori qualcosa o qualcuno che si pensava perduto. E questo, sì, può davvero far male".