STEFANO MARCHETTI
Cronaca

Gramsci e la rivoluzione del jazz . Franchini svela il politico precursore

Nel nuovo volume il rapporto fra l’intellettuale e una musica che riteneva e descriveva come ’tayloristica’

Gramsci e la rivoluzione del jazz . Franchini svela il politico precursore

Nel nuovo volume il rapporto fra l’intellettuale e una musica che riteneva e descriveva come ’tayloristica’

Sarà che ormai i valzer avevano un po’ stancato... ma di certo nei ruggenti anni Venti del ‘900 a Parigi si ascoltava (e si ballava) sempre più un ritmo nuovo, quello del jazz. E la seducente Joséphine Baker, arrivata in Europa nel 1925 con l’orchestra del sassofonista Sidney Bechet, faceva girare la testa e battere i cuori. Nell’agosto 1927, dal carcere di Milano dove era stato rinchiuso dal regime fascista, Antonio Gramsci scriveva una lettera all’amico Giuseppe Berti e non esitava a commentare questo nuovo fenomeno: "La Francia è l’inizio dell’Africa tenebrosa e il jazz band è l’inizio di una civiltà eurafricana". Ci sarebbe tornato sopra qualche mese dopo in un’altra lettera, stavolta indirizzata alla cognata Tatiana: "Se un pericolo c’è, è costituito piuttosto dalla musica e dalla danza importata in Europa dai negri". Musica forte, ritmata ed energica che "ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, e ha creato anzi un vero fanatismo", aggiungeva. Secondo Gramsci, "la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando" avrebbe portato certamente a significativi "risultati ideologici". Insomma, il jazz era destinato a cambiare il mondo.

A cento anni di distanza (e alla luce di una nuova sensibilità), oggi le parole di Gramsci suonano forti o addirittura – per certi versi – perfino velate di razzismo. Ed è curioso sapere che sono state scritte da uno degli intellettuali più profondi del ‘900. Ma davvero Gramsci era diffidente verso il jazz? O aveva semplicemente capito che quella musica non era che l’apripista di una nuova cultura extraeuropea? Prova a rispondere a questi interrogativi il bel saggio "Gramsci e il jazz" (piccolo di formato, denso di contenuti) che Roberto Franchini, giornalista e scrittore, già presidente della Fondazione San Carlo, ha pubblicato per Bibliotheka Edizioni: lo presenterà giovedì, il 10, alle 18 al Caffè Concerto di piazza Grande.

"Razzista Gramsci? Assolutamente no – risponde Franchini –. La sua analisi rivela piuttosto che lui aveva intuito la capacità del jazz di fare breccia nei gusti degli europei. Lo colpiva il fatto che fosse musica molto ripetitiva e fisica, e temeva che finisse per far prevalere una cultura elementare e ripetitiva, poco incline alla riflessione. Temeva una società massificata, consumista, semplificata, meccanizzata" In questo senso, nella sua visione, il jazz si intrecciava con le fabbriche tayloristiche: le orchestre jazz, come catene di montaggio, erano quasi lo specchio di un ‘fordismo’ musicale. Insomma, Antonio Gramsci aveva certamente percepito che la cultura americana sarebbe divenuta fondamentale anche in Europa, passando soprattutto da Parigi. "Gramsci mise a confronto la cultura nuova che veniva dall’America, e quella altrettanto nuova che proveniva dall’Asia – osserva Franchini –. La capacità di avere una visione globale, diremmo internazionale, lo rendono superiore a quasi tutti i politici del suo tempo e a molti intellettuali", e con lo stesso acume aveva anche già percepito il potere della radio che in Italia nasceva proprio cento anni fa. Gramsci aveva capito che spesso le rivoluzioni ‘arrivano’, anche quando non le vediamo arrivare.