"Mia sorella Laila aveva paura: temeva per la propria incolumità. Due settimane prima della tragedia mi ha confidato di essere molto preoccupata per un malfunzionamento elettrico del macchinario che utilizzava". Sono state queste le ‘pesanti’ parole pronunciate ieri in aula da Najoua El Harim, sorella di Laila El Harim, l’operaia quarantenne di origine marocchina, ma in Italia da oltre vent’anni, residente a Bastiglia, rimasta schiacciata da una fustellatrice alla Bombonette di Camposanto, la nota azienda di packaging per cui lavorava. La tragedia è avvenuta il 3 agosto 2021 ed ora il processo è in una fase cruciale. Ieri sono stati sentiti i testimoni dell’accusa, tra cui la sorella della vittima e il marito. La giovane Najoua ha confermato come la vittima avesse "a più riprese segnalato i problemi della fustellatrice in cui è poi rimasta uccisa". Il processo si è svolto davanti al giudice Natalina Pischedda e, come noto, vede alla sbarra Fiano Setti, 87 anni, di Camposanto, fondatore e legale rappresentante della ditta nonché datore di lavoro, il nipote Jacopo Setti, 32 anni, in qualità di delegato alla Sicurezza e la stessa Bombonette srl in quanto soggetto giuridico. L’ipotesi di reato contestata agli indagati è quella di omicidio colposo in concorso, con l’aggravante di essere stato commesso con la violazione delle norme antinfortunistiche. Ieri sono stati sentiti anche i tecnici dello Spisal che hanno condotto le indagini e alcuni colleghi di lavoro: la famiglia di origine dell’operaia è assistita dall’avvocato Dario Eugeni, del Foro di Bologna, che era presente in aula, e da Studio3A-Valore S.p.A., società specializzata a livello nazionale nel risarcimento danni e nella tutela dei diritti dei cittadini. Il compagno di Laila, Manuele Altiero, ha spiegato la differenza tra i macchinari della Bombonette e quelli che la vittima utilizzava nell’azienda in cui lavorava in precedenza. "Su quella macchina – ha spiegato – non era stata addestrata. Anche l’operatore che la affiancava era inesperto. Sono 25 anni che lavoro in questo settore e mia moglie si lamentava della scarsa sicurezza e della scarsa professionalità all’interno dell’azienda. Il dipendente più ‘anziano’ del reparto fustellatura lavorava lì da sei mesi appena". Il marito ha poi commentato alcune foto di materiale ‘non conforme’ di cui Laila gli parlava "e che avrebbe dovuto essere rispedito al fornitore, ma che veniva comunque utilizzato".
A parlare per primo, il collega della vittima che quella mattina era impegnato su un’altra macchina. Ha spiegato il funzionamento di quei macchinari: lo stop, l’emergenza, il ruolo di Laila nel reparto.
Dopo di che ha preso la parola un elettricista che aveva operato due volte sul macchinario che ha ucciso Laila. "Mi avevano chiamato per registrare la fotocellula che dava problemi – ha spiegato in aula – avevo rimesso a posto le fotocellule due settimane prima dell’infortunio poiché il macchinario non funzionava".
Valentina Reggiani