DORIANO RABOTTI
Cronaca

"Dalla metro ai Grammy New York è un sogno jazz"

La storia di Francesco Amenta, che ha scelto gli States dopo gli anni in Emilia "Frequentavo il Wienna e proprio lì è sbocciato l’amore per questo genere".

"Dalla metro ai Grammy New York è un sogno jazz"

di Doriano Rabotti

Con quel sassofono ha girato le strade del mondo. Ora è a New York, ma è difficile immaginare che uno come Francesco Amenta, 48 anni, possa mettere radici per sempre, anche se è in attesa della Green Card. Il suo viaggio da giramondo è iniziato da un luogo mitico del jazz modenese: "A vent’anni frequentavo Lucio Bruni, Cesare Vincenti, Andrea Burani ed Enrico Lazzarini al Wienna, dove è sbocciato l’amore per il jazz", racconta Francesco da New York.

Amenta, ci racconti la sua Modena.

"I miei erano romani, sono venuti a Modena perché mio padre era un chirurgo e vinse il concorso. Io sono nato e cresciuto qui: sono andato a scuola alle San Carlo-Pascoli, poi al liceo Muratori, sono passato allo scientifico e dopo aver preso il diploma avevo iniziato a studiare beni culturali a Parma. Ma ho mollato, volevo fare il musicista".

Subito il sassofono?

"Sì, il mio primo insegnante fu Riccardo Manfredi. C’entra anche un assistente di mio padre, il professor Cervellera che ora è primario a Taranto: mi portava le cassette di Sonny Rollins e mi accompagnava ai concerti".

Da qui a New York la strada è ancora lunga...

"Sì. In quel periodo suonavo con un musicista di Trieste, Flavio D’Avanzo, mi parlò di una scuola a Parigi, l’American School of Modern Music. Mandai una richiesta di nascosto da papà, al quale dissi dell’audizione solo una settimana prima di partire. Dopo gli anni a Parigi, tornai a casa e feci il direttore artistico del primo Caffè Concerto, entrando anche in contatto con grandi chef. Cucinare è un’altra delle mie passioni".

Alla fine al Conservatorio c’è andato due volte.

"La prima a Bologna, dove avevo iniziato a frequentare Piero Odorici, Carlo Atti e Nico Menci, il giro bolognese del jazz. Conobbi anche Barend Middelhoff, sassofonista olandese: grazie a lui andai a Den Haag nel 2008, frequentai nuovamente il Conservatorio e rimasi per una decina d’anni tra concerti e tour europei. Insegnavo musica e facevo anche altri lavoretti, tra cui il cuoco per la Corte penale internazionale dell’Aia".

E poi gli States.

"Ero stanco della mentalità europea. Nel 2015 uscì il mio primo disco, ’Colors and ties’, con musicisti greci e italiani. Fui invitato al Festival jazz di Modena dove conobbi il bassista di Kurt Rosewingel, Orlando Le Fleming. Mi disse: prova a New York. Partii armato del mio entusiasmo".

Andò bene, si direbbe.

"Rimasi subito folgorato, la seconda volta nel 2017 rimasi tre mesi nei quali presi i contatti per il visto e suonai tutti i giorni in diversi club del Village, dalle 18.30 alle sei del mattino. Nel 2018 andai definitivamente".

Dove si stabilì?

"All’inizio a Brooklyn, i primi mesi furono duri. Mi esibivo nella metropolitana con la funky band di un trombonista italiano allievo del maestro Schiaffini. Qui suonare nella metro è una cosa normalissima. Poi mi trasferii ad Harlem, conobbi mia moglie, che è toscana, fa la ballerina. L’ho sposata sotto pandemia, ora viviamo a Manhattan".

Nel frattempo aveva registrato un altro disco.

"Conobbi John Lee, il bassista di Dizzy Gillespie.Mi consigliò di lavorare con Cyrus Chestnut. Registrammo con Cyrus, con Gary Kerkezou e Kimon Karoutzos il disco ’Midtown walk’, che andò benissimo: due anni tra i primi cinquanta in classifica, partecipammo ai Grammy. Non abbiamo vinto, mi bastano i complimenti dei giurati".

E poi c’è il mondo della danza.

"Tramite mia moglie sono entrato in contatto e spero di tornare a lavorare in questo ambiente".

Amenta, da modenese ci dica la verità. Con la cucina in America come la mettiamo?

"Benissimo. Mi faccio i tortellini in casa".