Il 25 novembre ricorre la Giornata contro la violenza sulle donne e i numeri delle vittime di abusi e botte, purtroppo, continuano a risultare altissimi anche nella nostra provincia.
Non passa giorno che in tribunale a Modena non si celebri un processo contro un ‘maltrattante’. Tra i temi più dibattuti vi è quello dei ‘benefici’ riservati agli imputati e la loro riabilitazione.
Ovvero: la sospensione condizionale della pena subordinata allo svolgimento di un percorso di rieducazione presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di persone condannate per il reato di violenza sessuale o maltrattamenti.
Una ‘possibilità’ introdotta come noto dalla cosiddetta riforma Cartabia che, per una buona ‘fetta’ di avvocati penalisti, per svariati motivi non riduce però il rischio di recidiva.
"Spesso gli imputati seguono i ’compiti’ per schivarsi il carcere e non perché vogliono davvero uscire dalla violenza – afferma l’avvocata Sonia Lama, dell’associazione Unione Donne in Italia –. Ma le criticità sono diverse: non vi è alcun controllo. Chi ha fatto la legge e introdotto questi percorsi terapeutici, non sa concretamente cosa prevedano e soprattutto i tempi.
Le liste d’attesa sono importanti". Dunque, difficoltà di applicazione pratica e scarsa efficacia.
"I problemi principali sono questi – sottolinea l’avvocata –, in primis il fatto che appunto non esiste una regolamentazione dei corsi in questione. Chi decide che formazione va fatta? Noi continuiamo a dire che la violenza di genere è infatti una questione prima di tutto culturale. Ad esempio a Ravenna il tempo corrispondente a quello della sospensione della pena è di cinque anni, come dire.. quando sei più comodo vai dallo psicologo, paghi e ti certificano che sei stato bravo.
Una situazione slegata da qualsiasi controllo. Poi, appunto – rimarca l’avvocata – non c’è posto da nessuna parte. E vorrei che si tenesse presente che non tutti sono ‘guaribili’; non c’è la bacchetta magica.
Non tutti gli imputati sono ‘uguali’ e per alcuni magari il percorso andrebbe seguito all’interno del carcere, pur non essendo il carcere ‘una risposta’. Credo che sia sempre una questione di come questi servizi vengano approntati".
Valentina Reggiani