Modena, 8 gennaio 2013 - L'ECCIDIO delle Fonderie non è solo una corona di fiori. E' una storia densa di significato, una pagina triste che è costata la vita, il 9 gennaio 1950, a sei operai modenesi, uccisi dalle forze dell'ordine. Il professor Lorenzo Bertucelli, nel suo nuovo libro "All'alba della repubblica. Modena 9 gennaio 1950. L'eccidio delle Fonderie Riunite (Edizioni Unicopli 2012)" ripercorre quella drammatica vertenza sindacale e il suo significato in quel contesto storico. La presentazione - Aula magna del rettorato (via Università 4) - oggi alle 17.30.
Bertucelli, perché ha scelto di approfondire questa vicenda?
«Per capire in che modo una repubblica nata dalla speranza sia precipitata in un clima di conflittualità politica e ideologica così forte».
Qual è il contesto storico?
«Siamo nel pieno della guerra fredda, due visioni del mondo radicalmente diverse si confrontano. C'entra moltissimo, ma non basta a spiegare tutta la drammaticità di quel confilitto».
Perché?
«Perché in altri paesi simili al nostro dal punto di vista sociale, come la Francia, non si sono verificate queste sequenze di sangue».
Di che sequenza parla?
«Inizia nel '47, con la strage di Portella della Ginestra, in Sicilia. Da quel momento muoiono decine di lavoratori in conflitti di lavoro. L'eccidio di Modena è il culmine».
Com'è andata, quel 9 gennaio?
«I sindacati avevano organizzato una manifestazione per impedire la riapertura delle Fonderie, dopo una serrata. Il proprietario voleva ripartire assumendo solo metà delle persone, e a sua discrezione».
Quanti operai lavoravano in quella fabbrica?
«Circa 500».
Continui.
«Per i sindacati, che vengono da alcune pesanti sconfitte, quella vertenza è l'ultima spiaggia. C'è tensione. Qualcuno vuole entrare e occupare; i leader della protesta non sono d'accordo, ma non si oppongono. Il corteo si avvicina alle fonderie».
In che zona siamo?
«In fondo a via Ciro Menotti, dove oggi c'è il cavalcaferrovia. Il corteo arriva da via Divisione Aqui, dal Torrenova (attuale) e dai campi. Ci sono dei posti di blocco davanti alla fabbrica e degli uomini armati dentro l'edificio».
Chi dà l'ordine di sparare?
«In realtà non c'è un vero e proprio ordine. Chi dice 'c'era il ministro Scelba, era fascista, hanno sparato addosso alla gente', non racconta la verità. Si tratta, piuttosto, di uno scontro che le forze dell'ordine non riescono più a gestire in modo razionale. Temevano un'insurrezione e quando hanno visto degli operai pronti a entrare hanno aperto il fuoco».
Quanti colpi?
«Almeno 200. Muoiono sei persone. Una ha 40 anni, le altre sono più giovani. Vengono colpiti da lontano. Uno di loro viene addirittura gettato in un fosso e colpito, dopo, alla nuca».
C'è stato un processo?
«Sì, ma gli imputati sono gli operai. Poliziotti e carabinieri sono stati tutti assolti. Nel '54 cadono le accuse e inizia la causa civile. Le famiglie dei morti ottengono due milioni di lire, ma l'avvocatura dello stato tiene a precisare che la polizia ha usato legittimamente le armi da fuoco. La verità ufficiale rimane questa; per l'autocritica non c'è spazio».
Davide Miserendino
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