Modena, 22 febbraio 2009. Sono state due ore scandite da terribili ricordi e segnate anche da lunghi silenzi, quelle trascorse faccia a faccia tra Marco Manzini e il sostituto procuratore Domenico Ambrosino. Il 34enne di San Michele di Sassuolo, accusato dell’omicidio volontario della moglie Giulia Galiotto, è stato interrogato ieri mattina dal magistrato per ricostruire tutta la tragica serata dell’11 febbraio. Ma soprattutto perché spiegasse le motivazioni che lo avrebbero portato prima a massacrare la sua donna con una pietra, poi a inscenarne il suicidio buttandola nel greto del rio Ardinale, a poche centinaia di metri da dove l’aveva assassinata.
Il perito elettrotecnico in carcere, affiancato dagli avvocati Roberto Ghini e Maria Elena Bompani, è parso ancora scosso, confuso, chiuso in se stesso. E se ha potuto comunque fornire maggiori dettagli su quello che ha commesso, ha fatto scudo quando il pm gli ha chiesto i motivi della sua violenza omicida. «Non sto bene, non me la sento di dirli adesso, non sono davvero in grado», ha ripetuto Manzini alle domande di Ambrosino. «Il nostro assistito è stato collaborativo anche se è molto provato — dice l’avvocato Ghini — e al magistrato ha confermato i fatti precisando anche alcuni particolari. Non sfugge, insomma, alle proprie responsabilità. Ma in questo momento non gli è possibile, proprio per lo stato in cui si trova, avere altrettanta lucidità circa i motivi di quello che ha fatto».
Manzini, da qualche giorno, è assistito in carcere da uno psichiatra. Non sta ricevendo cure, ma è seguito costantemente e con attenzione in una fase in cui potrebbe anche compiere atti autolesivi. L’altro giorno l’uomo ha ricevuto la visita in carcere dei suoi genitori, due persone sconvolte dalla vicenda e che hanno dato vita, con il padre e la madre della Galiotto, a un toccante abbraccio di dolore.
Rimane però ancora sospesa, e avvolta dall’incredulità generale, la motivazione che ha spinto il 34enne ad agire. Tanto il sospetto che la moglie lo potesse tradire, quanto il disaccordo sull’avere o meno dei figli non giustificherebbero in alcun modo il furore omicida. Sono rispettivamente i motivi forniti dall’uomo il giorno dopo i fatti e dalla famiglia della vittima per spiegare la rottura nella coppia. La gelosia non sembra insomma convincere appieno il magistrato come causa scatenante della brutale uccisione. Quanto invece alla sequenza dell’omicidio, non sembrano esserci più zone oscure date le prove raccolte e le dichiarazioni dell’accusato.
Certamente il rapporto tra Manzini e la Galiotto era deteriorato e i due venivano da qualche settimana di crisi conclamata. Ma entrambi stavano cercando di riavvicinarsi, e la contentezza con cui la 30enne aveva risposto al marito che l’aveva invitata a casa dei suoi genitori per poi ucciderla, testimonia come l’unione non fosse al capolinea. C’era stato un litigio al bar tra moglie e marito l’8 febbraio, ma chi era presente ha parlato di schermaglie ordinarie, che in nessun modo avrebbero fatto pensare a un epilogo tragico di lì a tre giorni.
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