Pesaro, 10 agosto 2023 - Si apre con la prima di Eduardo e Cristina la 44esima edizione del Rossini Opera Festival (in scena dall’11 al 23 agosto). L’opera in prima moderna nell’edizione critica della Fondazione Rossini e l’ultima partitura sepolta che riaffiora dall’Atlantide rossiniana. Jader Bignamini dirige l’Orchestra sinfonica della Rai e il Coro del Teatro Ventidio Basso. Nel cast Enea Scala (Carlo), Anastasia Bartoli (Cristina), Daniela Barcellona (Eduardo), Grigory Shkarupa (Giacomo) e Matteo Roma (Atlei). Lo spettacolo è interamente affidato a Stefano Poda (regia, scene, costumi, luci e coreografie).
Stefano Poda, Eduardo e Cristina è una prima assoluta. Quale è stato l’approccio a quest’opera di cui si sa pochissimo? “Il mio approccio, anche se si tratta di un’opera mai vista, non è raccontare il libretto in maniera tautologica, né ambientarlo in qualche situazione riconoscibile in modo da spiegarlo meglio o trovargli chiavi di lettura concreta. Siamo malati di realismo, di cronaca, di informazioni. La vicenda del libretto si riassume in uno scontro fortissimo fra due opposti, fra padre e figlia. Ho quindi impostato tutto su un mondo distrutto e frammentato, polarizzato, una tragedia interna che trova uno spazio solido in uno spazio dell’anima e dunque sul palcoscenico. Soltanto alla fine, nella conclusione felice, il pubblico vedrà il quadro ricomporsi, come una sorta di appianamento dei contrasti. Anche i costumi sono impostati in tal senso, quasi fossero una propagazione delle scene frammentate. Un grande apporto all’azione scenica ed al lavoro di introspezione degli interpreti è invece dato dal mio gruppo di danzatori, che fungono da amplificatori emozionali e accompagnano i sentimenti battuta per battuta in un lavoro musicale, non concettuale. Ai momenti di solitudine si alternano grandi pagine di esplosione corporea, e la danza è l’equivalente più fisico della musica e del canto, ossia dell’emozione pura”.
Il fatto di non avere riferimenti moderni in fatto di allestimenti rispetto all’opera le ha lasciato le mani più libere? “Sinceramente, sento sempre di avere le mani libere perché istintivamente non seguo né il passato, che tutti conoscono, né le mode presenti, che hanno le ore contate. Il mio processo creativo è immediato, viene da una ispirazione legata alla musica e non al concetto: non parto mai da un’idea cerebrale, piuttosto cerco di ascoltare la musica come lo scassinatore che gira e rigira la manopola della cassaforte aspettando il “click”. Quando il click arriva, comincia un processo di creazione tutto personale, che infine si trasferisce sul pubblico: dico sempre che è lo spettatore il vero interprete dello spettacolo, non io. Penso quindi che l’assenza di riferimenti influirà piuttosto sul pubblico, che dovrà rielaborare tutto quanto senza avere precedenti…” Firmare tutto l’allestimento è più semplice (visto che deve rendere conto solo a sé stesso), più complicato o semplicemente rende le sue responsabilità più grandi? “Spesso mi chiedono di spiegare il mio stile di lavoro come fosse una “scelta”, operata coscientemente o in vista di un qualche scopo. Rispondo sempre che non è così: non si tratta di una strategia precisa, né di qualcosa su cui posso intervenire. Ho sempre lavorato così, per istinto, vedendo semplicemente nella mia mente le immagini dello spettacolo tutte insieme, senza bisogno di separarle in categorie contrattuali: al contrario, benché il lavoro sia molto complesso, io lo concepisco come un’attività artigianale: il teatro come una bottega. Non so dire se sia un modo di lavoro più semplice, più complicato o più responsabile, banalmente è l’unico che mi funziona. La vita ha un suo mistero unitario: si può analizzare oppure intuire. Non si scoprirà mai. Anche in arte dovrebbe valere dunque lo stesso criterio. Ingenuamente, prima di conoscere il reale meccanismo dell’organizzazione teatrale istituzionale, credevo che la messa in scena fosse il prodotto della ricerca di un unico artista. Così come non avrei mai pensato possibile che un pittore potesse delegare ad un altro disegnatore i dettagli della sua architettura o che un romanziere si potesse servire di un poeta per completare le proprie riflessioni… Dipingendo un quadro, non si pensano separatamente le forme dal colore e dalle luci. Ho impiegato una vita intera per imparare, poi per imparare a disimparare, infine per riuscire a ricreare un universo parallelo. Non ho mai perso l’occasione di ricercare i fili nascosti che uniscono nascostamente le varie discipline e le varie forme di percezione. Come il sonno, la musica ci permette di accedere ad una sorta di verità parallela e infinita. Dunque mi rifiuto di rendere “concreto” ciò che è libertà, sogno e volo. Così mi sono dedicato ossessivamente a tutto quanto mi permettesse “ricostruire”: dalla scultura alla pittura, dal costume alla luce, dalla coreografia alla meditazione, tutto per riuscire ad elaborare un codice plastico capace di dar corpo ad una drammaturgia di musica e azione (che è vita e mai finzione). È una necessità di sintesi che mi porta a chiudere gli occhi e visualizzare ogni aspetto della messa in scena… Questo rientra nella mia concezione dell'Opera come di unione di tutte le arti, come sfondamento interdisciplinare, come dimensione libera. Fin dal liceo ci insegnano a separare e suddividere le materie dello scibile umano, ma è un approccio che nell'antichità non esisteva, frutto del positivismo e del tecnicismo. L'Opera può invece ritrovare una dimensione umanistica, poliedrica, olistica, slegata dalle necessità pratiche”. Come è stato il suo approccio rispetto alla partitura? “Siamo di fronte ad un centone, ma di una grande qualità perché composto di grandi materiali organizzati da un genio assoluto. Stiamo scoprendo che contiene maggior parti originali di quante ne contenga per esempio Elisabetta Regina di Inghilterra. Una grande sorpresa lavorandoci. Il pregio principale di questo titolo è la sorpresa: il pubblico si ritrova di fronte a momenti musicali di provenienza diversa, ed è un continuo stupore. Penso per esempio all’aria di Carlo, tratta dall’Ermione, che è un puro fuoco d’artificio di un eroe epico (Pirro)… il pubblico non si aspetta tanta drammaticità alla corte di Svezia, dove re Carlo si trasforma per un momento nel glorioso figlio di Achille… e invece Rossini opera questi trasferimenti con molta lucidità: sia Carlo sia Pirro sono adirati contro una madre che vogliono ricattare attraverso minacce al figlio innocente… quindi, col suo autoimprestito, l’autore sembra dirci che non importa essere in un poema epico o in un melodramma: l’uomo si insegue e si richiama da solo nelle sue altezze e bassezze. Un altro esempio è l’inizio dell’opera, che è l'incipit di Adelaide di Borgogna: il coro da una parte canta “Giubila o patria, omai”, e dall’altra “Povera patria oppressa”, ma si tratta della stessa melodia… come possono le stesse note essere valide sia per il giubilo che per il pianto? Di nuovo, Rossini sembra suggerirci in questo modo che la realtà è doppia, difficile da interpretare, che ogni vicenda umana e politica (compresa la guerra) ha due facce opposte. Proprio su questo ho voluto puntare all’inizio della mia messa in scena: il giubilo generale mostra il suo lato amaro, disperato. La guerra è vinta, si celebra il trionfo, ma il palcoscenico è disseminato di morti, di persone che mancano, che sono perdute, di anime che non trovano pace”. E la sua collaborazione con il direttore Jader Bignamini? “La mia conoscenza con Jader viene da lontano, quando lavorammo insieme al Festival Verdi di Parma in una Forza del Destino: con lui tutto è naturale, tutto nasce nel modo giusto. Ha una grande sensibilità teatrale, per risolvere le cose vedendole dal palco alla buca, oltre che viceversa. Inoltre, la sua energia e il suo rigore sono molto importanti per i miei spettacoli: dico sempre che il palcoscenico è il corpo dello spettacolo, mentre la musica è l’anima: ebbene, non basta avere un bel corpo, bisogna che l’anima abbia una grande forza”. La diretta televisiva ha condizionato in qualche modo il suo allestimento? “Con le riprese cinematografiche e televisive ho un vincolo fortissimo sin dagli albori della mia carriera: in particolare, con la RAI siamo in una relazione molto stretta… Ho sempre trovato che teatro e televisione operino su piani apparentemente molto distinti. La televisione racconta la vita, il teatro racconta il sogno. Tuttavia, proprio da qui iniziano i punti di contatto e le contaminazioni: la vita vera e il mondo onirico si influenzano a vicenda... L'opera non è parlata, ma cantata: i suoi tempi, i suoi procedimenti, le sue strutture non coincideranno mai con quelle della vita reale. Non è razionale, non è consequenziale, ma apre e chiude collegamenti frammentari e improvvisi, proprio come agisce il nostro subcosciente quando sogniamo. Si prendono pezzi di vita e li si trasformano, per portarci in un mondo più lontano, più dilatato, forse più vero. Dico sempre che il teatro - e soprattutto l'opera - deve reclamare la sua Arte e la sua specificità, e anche il suo linguaggio. Il suo linguaggio deve essere proprio e tipico, non può essere preso in prestito da altri generi più moderni. Per quanto seducenti, tali mezzi espressivi rischiano di snaturare l'anima del teatro, che è quella viva e diretta della performance non mediata da alcuna tecnologia. Dico sempre quindi che il teatro non è cinema, non è televisione, non è videoproiezione, è altro. Non meglio o peggio, è altro. Diversi sono i mezzi, diversi sono i tempi, diversi sono gli ambiti di applicazione. Ma ecco che - di fronte a questa alterità - inizia un sottile gioco di interscambio. Mi piace pensare che il linguaggio del teatro sia influenzato positivamente dalla presenza delle telecamere, che abbattono la distanza fisica fra palcoscenico e platea. Tale separazione è a volte sentita come uno "scudo", una protezione, una lontananza capace di cancellare alcuni dettagli e alcuni particolari. Troppe volte si sente dire, in teatro "ma tanto questo non si vedrebbe", e io mi oppongo dicendo che la verità non è qualcosa da vedere, ma da sentire. La verità è una vibrazione, che arriva sempre e comunque, se presente: ma non tutti sono disposti ad avere questa fede, e così le riprese televisive, col loro rigore e il loro occhio implacabile, hanno l'effetto di agire come catalizzatore dell'attenzione, dell'impegno sul palcoscenico da parte di tutti. Un altro elemento affascinante del rapporto televisione-teatro è il documento che ne deriva. La bellezza del teatro è la sua dimensione effimera, che dura il tempo esatto in cui vive, e poi perisce. Ogni giorno è diverso, ogni giorno è perduto, in un infinito susseguirsi di performance fini a se stesse. Un monumento all'inutile meraviglioso, che mi sembra un prodigio in questo mondo iper-tecnico e iper-utilitaristico. Ed ecco che, ancora una volta, le riprese ci gettano un ponte da lontano: una porta della memoria che rimane aperta, il pensiero che - per una volta - facendo non morirò, ma resterò”. La sua prima volta al Rossini Opera Festival…. “È un momento anche commovente, perché ho scoperto una realtà che usa la sua grande storia non per inorgoglirsi vanamente, ma per puntare sempre al massimo dell’impegno, con modestia ma con ambizione. I tecnici, i laboratori, i lavoratori, tutti quanti ci tengono in maniera molto devota: la bellezza dell’Italia che ci piace, che si stringe attorno ai propri simboli”.