Civitanova, 2 agosto 2022 - "I bambini si affacciano al terrazzo, ancora aspettano Alika. Ogni volta che rientrava dal lavoro era una gioia per tutti. Non lo faceva mai a mani vuote, ma sempre con un pacco di gelati, pizze, bibite per i più piccoli. Continuano a domandare di lui, chiedono quando torna. Ancora non riescono a capire che non lo rivedranno più". La casa di Alika Ogorchukwu nella campagna di San Severino è piena di gente, "ma senza Alika sembra vuota", dice la vedova, Charity, a voce bassa, stesa sul pavimento davanti al divano.
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In questa casa ha trascorso con il marito gli ultimi quattro anni di vita. Non ha la forza di stare in piedi, piange, non può smettere. "Perché mio marito non lo rivedrò più. Qualunque cosa faremo, anche se alla fine avremo giustizia, lui non tornerà". Alika è stato ucciso da Filippo Ferlazzo, venerdì in pieno giorno, picchiato e strangolato per il corso di Civitanova. Nell’altra stanza, porta chiusa, c’è il piccolo Emmanuel, otto anni appena: "Sta male, è stordito per tutto quanto – spiega la mamma –, non ha realizzato che non vedrà più il padre. All’inizio gli abbiamo detto di un incidente, e credeva fosse in ospedale. Poi, piano piano, gli abbiamo spiegato. O meglio, ci abbiamo provato. Come si fa a dire a un figlio una cosa del genere? Lui ha sentito subito freddo, si è come ammalato. Non parla più molto, vorrebbe solo riabbracciare il suo papà". Il piccolo sarà seguito da uno psicologo, l’avvocato Francesco Mantella si è già attivato per provvedere il prima possibile.
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Charity mostra la chat della classe di Emmanuel: una marea di messaggi, pieni di dolore ma anche di affetto. Anche gli altri bimbi, la nipotina di Alika e i figli degli amici – in questi giorni è un viavai continuo, tutti cercano di stare vicino a Charity – sono tristi. La pizza resta sul tavolo della cucina, nessuno di loro ha voglia di mangiare né di giocare. Charity è straziata dal dolore, prende la borsa, cerca una foto del marito: ci sono loro due, qualche anno fa, sorridenti, nel giorno del matrimonio. "E ora non venitemi a dire che il killer è matto – grida la vedova, ha saputo da poco che Ferlazzo soffre di un disturbo bipolare ed è borderline –, se fosse uno che non sta bene, non avrebbe potuto girare da solo per strada né andare a fare acquisti, lui aveva vestiti decenti e occhiali da sole, era persino fidanzato con una ragazza, andava a lavorare. Qui non si tratta di un piccolo gesto di follia. Mio marito non è in ospedale, è morto. È un atto di cattiveria estrema, un atto criminale".
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È inconsolabile, Charity: "Io e Alika ci eravamo conosciuti a Prato tanto tempo fa – racconta –, eravamo legatissimi, innamorati. Questa casa sembra nulla senza di lui". "Il killer deve restare in galera per tutta la vita – scoppia in lacrime un’amica di Charity –, non può tornare in libertà con la scusa della pazzia, così che un giorno, magari, farà del male a qualcun altro. Vogliamo giustizia per Alika".
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Squilla il telefono, l’ennesima telefonata, è un amico di Alika che chiama dall’estero: "Verrò per il funerale – assicura, rivolto a Charity –, voi per noi siete come una famiglia. Ma dev’essere fatta giustizia, solo questo vogliamo adesso". Charity, aiutata anche dal fratello Eddy, si alza a fatica dal pavimento, dice che deve riposare. Vorrebbe dormire per poi risvegliarsi da quest’incubo, dice. Un incubo che sembra senza senso. "So che devo essere forte per mio figlio – dice –, ma Alika mi manca troppo. Ancora non riesco a credere che sia successo proprio a noi".
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