REDAZIONE MACERATA

Da Tolentino allo Stalag: «Ho ancora il marchio tatuato sul braccio»

Bruno Baldassarri, 98 anni, internato nei campi di concentramento tedeschi per i militari italiani

Bruno Baldassarri, 98 anni, di Tolentino

Tolentino (Macerata) 28 gennaio 2019 - Ha un numero marchiato sul braccio, il 1302. A 98 anni, il tolentinate Bruno Baldassarri cerca ancora di non guardarlo, «altrimenti divento matto», dice. E’ il marchio che gli venne impresso nello Stammlager (o Stalag) II-D Stettino, campo di prigionia di guerra nella Germania nazista durante la Seconda guerra mondiale. Sulla sua giacca era stampata la scritta Imi, internati militari italiani. Poi dal centro di smistamento in Pomerania è stato trasferito al campo di Hammerstein, in quello di Dortmund e infine nel lager IV D: tre anni sul fronte e due di prigionia. Nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, dopo il disarmo, i soldati vennero posti davanti a una scelta: continuare a combattere con l’esercito tedesco o essere deportati in Germania. Solo il 10 per cento accettò l’arruolamento. Non Baldassarri.

È partito da Tolentino il 19 febbraio 1940, a 20 anni, ed è tornato il 28 settembre 1945. Cosa ricorda del giorno del ritorno?

«Era l’una di pomeriggio, ero sceso davanti al campo sportivo. L’incontro con i miei familiari fu drammatico, nessuno sapeva del mio arrivo. La prima persona che incontrai fu mia cognata Antonia, con in braccio una bambina che conoscevo appena. Tante lacrime e, in meno di mezz’ora, casa era piena di parenti, vicini e amici. Nei due anni di prigionia e sofferenza non pensavo di potercela fare. Non sono riuscito a raccontare subito quanto accaduto, cercavo di dimenticare. La storia è venuta fuori più tardi».

Cosa succedeva nei lager?

«A noi soldati italiani che avevamo rifiutato di combattere con loro, i tedeschi dissero che non dovevamo ritenerci prigionieri di guerra, bensì internati militari per essere utilizzati come manodopera coatta, ai lavori forzati nelle miniere, nelle fabbriche di guerra, nello sgombero delle macerie dopo i bombardamenti, senza godere però delle tutele della Croce Rossa che spettavano invece ai prigionieri. Avevano annullato le nostre esistenze. Ho visto cose indescrivibili. Mi chiedo ancora come mai chi avrebbe potuto intervenire non lo fece, cercando di riportare ragionevolezza».

In che modo?

«Tutti sapevano dei forni crematori, dello sterminio degli ebrei, delle condizioni dei prigionieri. Mi domando: dove erano gli strateghi delle altre nazioni?, con tutta la loro potenza, i servizi segreti. Tutti sapevano dei treni carichi di innocenti e nessuno fu capace di opporsi. Nei campi bastava non capire la lingua per essere picchiato; un filone di pane nero doveva essere diviso tra cinque persone. Tanti amici sono morti di fame».

A chi o cosa pensava per andare avanti?

«Ai miei genitori, Dina e Luigi, che non sapevano nemmeno se fossi vivo. Ai miei tre fratelli, tra cui Gildo, anche lui prigioniero, ma in un altro campo. A mangiare, alla pura sopravvivenza. Ero il più allegro della compagnia e, dato che uscivo dal campo per andare a sistemare la casa di un gerarca della Gestapo, cercavo di riportare agli altri qualcosa da mettere sotto i denti».

Il mestiere di muratore, imparato prima, le tornò utile. Riuscì a trovare un po’ di umanità?

«Sì, andai a lavorare in una famiglia nazista in cui le persone si salutavano con ‘Heil Hitler!’. Erano però riconoscenti. Il gerarca Franz aveva una figlia, Annie, militarizzata come conducente di tram, e una moglie, Annalise, militarizzata alle poste. Ho avuto una storia d’amore con entrambe, in tempi diversi. Ero un ragazzo. Tutte e due avevano fatto un matrimonio di guerra».

Il rimpatrio durò da maggio a settembre ‘45, anche perché i tedeschi, prima di arrendersi, distrussero le vie di comunicazione. Il 1302 è sempre impresso.

«Sì. Negli anni successivi ho scritto una sorta di diario e sono andato nelle scuole a fare testimonianza. I giovani devono sapere quanto è costato a tutto il mondo il capriccio di un pazzo. A 98 anni vivo dell’amore della mia famiglia, dei ricordi di chi non c’è più, e canto».

Intona «Ciao, ciao bambina» e la lacrima, finora trattenuta, scende.

Lucia Gentili