Ottant’anni dalla liberazione: "Così aiutai i partigiani a raccogliere le armi sotterrate dai tedeschi"

Oggi, alla vigilia dell’anniversario, l’inaugurazione di una mostra in ateneo. Il 96enne Giuseppe Cerquetti, testimone del passaggio del fronte:. "Il rammarico? Non mi fecero entrare nella brigata, volevano proteggermi".

Ottant’anni dalla liberazione: "Così aiutai i partigiani a raccogliere le armi sotterrate dai tedeschi"

Ottant’anni dalla liberazione: "Così aiutai i partigiani a raccogliere le armi sotterrate dai tedeschi"

di Franco Veroli

"C’era un clima di grande preoccupazione e anche di grande incertezza. Ho ricordi chiari dell’impegno di mio padre che mi portava sempre con sé, e di Antonio, mio fratello più grande, che si era unito ai partigiani". Giuseppe Cerquetti, classe 1928, personaggio molto noto, in quanto attivo a lungo nella politica come dirigente del Pci e del sindacato, è un testimone del passaggio del fronte nella provincia di Macerata. Tra la fine del 1943 e la primavera del 1944, quando aveva sedici anni, ha vissuto le drammatiche fasi che seguirono all’8 settembre, dopo l’armistizio.

"Sono un testimone indiretto, io non ero a Macerata, anche se ora vivo in questa città. Sono originario di Civitanova e al passaggio del fronte mi trovavo a San Savino di Montecosaro", ci tiene subito a precisare. E, poi, racconta. "Dove oggi c’è Villa Pini, a quel tempo c’era un palazzo signorile della famiglia Emiliani di Montelupone e, soprattutto, tutto intorno c’era un bosco rigoglioso. Lì spesso andavo a giocare, visto che poco lontano c’era la casa di mio zio, il fratello di mia madre. Un giorno, dopo lo sfondamento degli Alleati a Cassino, mentre mi trovavo lì vidi arrivare una camionetta di ufficiali tedeschi da una parte, mentre dall’altra arrivava una camionetta di ufficiali italiani. Parlarono e poi ognuno tornò per la sua strada. Il distaccamento militare italiano che si trovava in quell’area, però, nel corso della notte si sciolse, ma aveva sotterrato delle armi. Io sono tornato in quel bosco, come avevo fatto altre volte, ma ad un certo punto mi sono sentito dire, non ti muovere. Erano persone che ho successivamente supposto fossero dei partigiani, poiché si impossessarono delle armi. Mentre li aiutavo a raccoglierle, però, sottrassi, per nasconderle a mia volta, un fucile 91, un moschetto, un fucile mitragliatore e una mitragliatrice che portai nel pollaio di mia madre".

Naturalmente a seguire il giovane Giuseppe c’era soprattutto suo fratello Antonio. "Successivamente siamo stati sfollati a San Savino, dove in tanti avevamo trovato rifugio nelle scuole, e dove operava un gruppo partigiano a cui si era unito mio fratello. All’avanzare degli Alleati i tedeschi si ritiravano, ma dalle case in cui si imbattevano portavano via tutto, a partire dagli animali. Ed erano comunque molto pericolosi. A me avevano dato l’incarico, nel caso di un loro arrivo, di mettere un fazzoletto bianco su un albero. Nonostante questo, ce la siamo vista brutta, tanto che una volta ci siamo salvati rifugiandoci in un fosso. Purtroppo, non lontane da noi, ci sono state persone che sono state catturate e trasferite in Germania. Solo alcune sono tornate". Giuseppe racconta poi dei bombardamenti, dei colpi che i tedeschi sparavano da un carro armato posizionato sopra l’Asola, tra Montecosaro e Morrovalle. "Volevano far credere che ne avevano tanti, ma era sempre lo stesso", sorride.

Un rammarico Giuseppe ce l’ha. "Non mi hanno mai fatto entrare davvero nella brigata partigiana che ricadeva nell’87esimo settore Adriatico. Ho scoperto solo dopo che era stato mio fratello a imporre questa decisione, sicuramente per tutelarmi". Ma, chiediamo a Giuseppe, in quel clima, con le bombe che piovevano dal cielo, non faceva paura a caricare e nascondere armi? "A quell’età non si ha paura di niente", conclude sornione.