Le armi della strage di Sambucheto saranno distrutte. Lo ha deciso il tribunale di Ancona, chiudendo un altro capitolo del gravissimo fatto di sangue avvenuto il 6 marzo del 1996. Un episodio violentissimo, che svelò connessioni tra la criminalità locale, la malavita campana e la banda della Magliana. Ancora sotto sequestro dall’epoca erano una pistola mitragliatrice croata marca Ero e due pistole semiautomatiche, una croata e una cecoslovacca, entrambe calibro 9 parabellum, più varie munizioni. Saranno distrutte anche le ogive dei proiettili recuperati con l’autopsia alle vittime Nazzareno Carducci, sua moglie Giovanna Ascione, all’ottavo mese di gravidanza, e il padre della donna Giovanni Ascione, falciati a raffiche di mitra mentre erano in casa, a Sambucheto. Armi e munizioni saranno portate al Cerimant di Padova da personale specializzato dell’ufficio armi ed esplosivi della divisione polizia amministrativa per la rottamazione.
Quella sera fu commessa una autentica esecuzione, messa in atto da Marco Schiavi e Salvatore Giovinazzo. Mandante fu Gianfranco Schiavi, meglio noto come "il Mastino", che da Porto Recanati aveva creato una banda attiva nel racket, sfruttando bische e locali notturni delle Marche. Gianfranco e Marco Schiavi e Salvatore Giovinazzo sono stati condannati tutti e tre all’ergastolo, che stanno scontando. Padre e figlio, dopo l’arresto, avevano deciso di collaborare con la giustizia e Marco Schiavi, in particolare, ha fatto lunghe e articolate deposizioni sull’attività del clan. La strage non era il primo omicidio firmato dal gruppo, ma fu il più clamoroso. "Lo ricordo benissimo – racconta l’avvocato Gabriele Cofanelli –. La sera prima della strage era venuta in studio Giovanna Ascione. Quel giorno mi regalò un orologio che ancora conservo, a pensarci oggi vengono ancora i brividi. Lei mi disse che voleva un chiarimento con Schiavi. E la sera dopo il commando andò a casa loro e li uccise".
Quella notte sopravvisse solo Rosa, la figlia di Nazzareno e Giovanna: quando sentì entrare i due uomini lei e la moglie di un altro membro del clan si nascosero sotto al letto, e i killer non le trovarono. La ragazza ha avuto da allora una vita molto difficile, segnata profondamente da quell’episodio tanto violento. "Pochi mesi dopo – ricorda ancora l’avvocato Cofanelli – nella caserma dei carabinieri di Porto Recanati trovarono un vero e proprio arsenale, che era stato nascosto lì dal maresciallo Monticone".
Il maresciallo fu arrestato. Tra le armi che nascondeva c’erano anche quelle della strage. Armi che, secondo quanto emerse in seguito, avrebbero dovuto essere consegnate a due membri della banda della Magliana che a metà anni Novanta, coinvolti nel processo a Perugia per l’omicidio di Mino Pecorelli, frequentavano molto Porto Recanati. Dietro alla strage, come si capì in seguito, c’era una guerra tra bande. Il Mastino si dedicava soprattutto a tartassare i locali e le bische della costa. Un clan campano però voleva occuparsi dello spaccio di stupefacenti nelle Marche.
Schiavi era contrario, e così il boss iniziò a reclutare qualcuno dei suoi, tra i quali Carducci. Quest’ultimo inoltre era legato a Giovanna Ascione, parente della famiglia di Ercolano che poteva assicurare un altro canale di rifornimento della droga. Il Mastino decise di punire chi lo aveva tradito con una esecuzione che doveva essere esemplare. Dopo quel fatto l’attività criminale del Mastino finì nel mirino di polizia e carabinieri. Ma qualche tempo dopo il figlio Marco pensò di riavviare il racket, in attesa che l’ergastolo preso in corte d’assise per il triplice omicidio divenisse definitivo, cosa accaduta solo nel 2010.