ALESSANDRO FELIZIANI
Cronaca

Alla riscoperta dei dialetti. Le "scandafàole" rinascono con il libro di Silvano Fazi: "Siamo una terra al plurale"

Il primo presidente del Consiglio comunale di Macerata, conosciuto nel mondo del volontariato, parla del suo ultimo lavoro "Piticchjì": "L’idea è venuta con mia moglie" .

Il primo presidente del Consiglio comunale di Macerata, conosciuto nel mondo del volontariato, parla del suo ultimo lavoro "Piticchjì": "L’idea è venuta con mia moglie" .

Il primo presidente del Consiglio comunale di Macerata, conosciuto nel mondo del volontariato, parla del suo ultimo lavoro "Piticchjì": "L’idea è venuta con mia moglie" .

Dopo essere stati messi per lungo tempo al bando, da anni si assiste ad una vivace riscoperta dei dialetti. Essi trovano sempre maggiore spazio nel cinema, nelle canzoni, nella letteratura. Non fanno eccezione i dialetti del maceratese, che dopo aver avuto illustri cantori in passato, hanno visto affacciarsi in questi anni nuovi autori. Silvano Fazi è uno di loro.

Nome noto nel mondo sindacale e del volontariato, con un trascorso anche politico (dal 1994 al 1997 è stato il primo presidente del Consiglio comunale di Macerata), Fazi da alcune settimane è presente nelle librerie con "Piticchjì", un libro di "scandafàole", illustrato da Miriam Mugnoz e pubblicato dall’editore Vydia di Montecassiano, con prefazione di Silvia Alessandrini Calisti. Fazi, chi è Piticchjì? Piticchjì, insieme a Chjuì, Beccaccì, Tarduà e molti altri sono personaggi della tradizione fiabesca marchigiana. Protagonisti di favole, leggende, filastrocche, che per secoli hanno tramandato valori e virtù, come ad esempio la modestia e l’altruismo, in contrapposizione alla tracotanza e alla superbia.

Come è nata l’idea del libro?

"Insieme con mia moglie, Eliana Ribes, mi ero divertito a scrivere in dialetto una fiaba, reminiscenza della nostra infanzia. Poi ho avuto l’idea di ricercare "scandafàole" diffuse nelle Marche. Ne ho trovate una ottantina, pubblicate in italiano o nei dialetti locali in libri antichi e giornali d’epoca".

Poi cosa ha fatto?

"Ne ho selezionate cinquanta, quelle diffuse nel maceratese e nelle aree del fermano e dello jesino. Rispettando la fedeltà ai contenuti delle storie, le ho uniformate dal punto di vista della scrittura, scegliendo la forma dialettale di Macerata capoluogo. Solo la fiaba introduttiva del libro, "Lu vecchju, lu frichì e lu somaru", l’ho scritta nel dialetto che mi è proprio, quello di Urbisaglia, in onore a mio padre, che me la raccontava spesso".

Che differenza c’è tra il dialetto di Macerata e quello di Urbisaglia?

"Come le Marche, la stessa provincia di Macerata è una terra al plurale soprattutto nei dialetti, che variano da paese a paese. L’uso più marcato di determinate vocali, gli accenti e le diverse cantilene identificano il paese di chi parla in dialetto. "C’era una volta…" a Macerata si dice ’na òrda, mentre a Urbisaglia dicono ’na òta. "Noi", diventa, rispettivamente, nuandri e nuatri, "il mondo" lu munnu e lo munno. Nel dialetto di Macerata "egli andò" è jette e non muta nella terza persona plurale, mentre a Urbisaglia si dice jéttulu (singolare) e jéttili (plurale). Scrivere in dialetto immagino sia difficilissimo anche per chi lo parla. A differenza del napoletano e di altri dialetti più conosciuti, quelli marchigiani non hanno una tradizione letteraria. Essi si sono tramandati oralmente e per me è stata essenziale la consulenza e l’aiuto dello studioso dei dialetti Agostino Regnicoli, che ha curato la revisione ortografica di questo e di altri libri".

Come e quando è iniziata questa sua passione?

"Dopo la maturità classica ho conservato l’interesse per le ricerche d’archivio, appassionandomi alle tradizioni locali. Anni fa proprio Regnicoli mi sollecitò a scrivere in dialetto e dopo due opuscoli autoprodotti per finanziare un’iniziativa a favore del Commercio equo e solidale, nel 2014 ho scritto il primo libro: "Èra d’aprì", una storia familiare, con usi, tradizioni e rituali della vita rurale di un tempo. Due anni più tardi ho pubblicato “Per quanti fjuri caccia ’m prate”, la storia reale del nonno di mia moglie, scritta con lei a quattro mani in dialetto urbisagliense. Il libro, premiato nel 2020 al concorso nazionale "Salva la tua lingua locale", ha avuto anche una riduzione in forma teatrale, messa in scena a Macerata nel borgo di Villa Ficana. Prima di Piticchjì c’è stato anche un altro suo libro. Sì, nel 2021 è uscito "Me sa mijj’anne", storia romanzata di otto generazioni di una stessa famiglia contadina i cui protagonisti sono vissuti tra Montelupone, Macerata, Pollenza, Treia, Colmurano, Camporotondo ed Urbisaglia".

Tutti libri pubblicati da Vydia? "Solo gli ultimi due. L’editore Luca Bartoli ha avuto la felice intuizione di realizzare una collana, "Case di terra", per salvare i dialetti, facendone conoscere anche il valore cultuale, specie ora che l’italiano è continuamente invaso da anglicismi".

I giovani che rapporto hanno con il dialetto?

"La loro maggiore curiosità è per le locuzioni e i modi di dire e quando leggo in pubblico brani dei miei libri i bambini restano incantati. Ciò fa ben sperare per il futuro del dialetto".