
Viscovo è stata per anni coordinatrice nazionale della sezione attori della Slc-Cgil
Martedì alle 20.30 il Teatro Testori ospiterà ‘L’estasi della lotta’, una co-produzione Elsinor con Lac Lugano e Trento Spettacoli, scritta da Angela Dematté. Si tratta di un progetto intimo dell’attrice Carlotta Viscovo, che per anni ha coordinato la sezione attori della Slc-Cgil, esponendosi in primo piano nella lotta per i diritti dei lavoratori dello spettacolo. Viscovo intreccia la sua storia personale a quella della scultrice francese Camille Claudel, per indagare il rapporto tra corpo e protesta.
Carlotta Viscovo, qual è stata la genesi de ‘L’estasi della lotta’? In che modo la sua esperienza personale ha confluito nello spettacolo?"Da anni volevo portare in scena la figura di Camille Claudel: la sua storia mi folgorò nel 2004, quando andai per la prima volta al museo Rodin, a Parigi, e vidi le sue opere. Leggendo di lei, mi veniva sempre raccontata come vittima, allieva e amante di Rodin, sempre in funzione sua, quando invece io desideravo riscattarla come artista. Questo mi ha aperto molti interrogativi su quanto conti la biografia di un’artista nella fruizione della sua opera. Ma ogni volta che mi ci approcciavo andavo sulla follia, visto che lei ha passato i suoi ultimi trent’anni in manicomio. Solo dopo molti anni, incontrando Angela Dematté, sono riuscita a riprendere in mano questo desiderio: stiamo state nei luoghi della sua infanzia, in Francia, dove Dematté ha evidenziato una forte identificazione tra me e Claudel, spingendomi a indagarla. Poi, ad ottobre 2020, Lorenzo Ponte e Margherita Orsini, che volevano fare un documentario sui lavoratori dello spettacolo, mi hanno chiesto di seguirmi con una videocamera per un anno, nel momento in cui stavo pensando di dimettermi dal ruolo di coordinatrice, perché non riuscivo più a lavorare alle mie attività personali. Da questo materiale, Dematté ha riscontrato molte similitudini tra la mia esperienza e la vita di Claudel, che si batteva per il giusto riconoscimento, anche economico, dei nostri lavoratori. La stesura del testo è stata intensa, proprio perché così personale: quella che reciterò io sarà la diciannovesima versione".
Quali sono gli elementi in comune tra lei e Claudel?"La radicalità nel voler affrontare la nostra vocazione artistica e il desiderio che la nostra arte venga riconosciuta. E poi c’è il tema dell’autosabotaggio: nello spettacolo ci chiediamo quanto la lotta politica sia stata una giustificazione per scappare dalla ricerca artistica nel mio caso, e quanto un esporsi in un modo talvolta arrogante non fosse stato un freno per la sua carriera. Questo si ritrova in tante dinamiche lavorative delle donne artiste e non: quando sei lì per riuscire, c’è qualcosa che trattiene e ti fa andare contro te stessa".
Il personaggio in scena indaga il rapporto tra corpo e protesta. Quando si è accorta che la parola non bastava più come strumento di lotta?"Nella pièce ci interroghiamo su quali possano essere adesso gli strumenti efficaci per portare avanti la lotta politica: le parole giuste non sono già state dette tutte? Ho sempre avuto l’esigenza di tornare al corpo, perché il linguaggio può essere limitante, insufficiente".
Quanta importanza riveste, nella società attuale, il ruolo politico dell’artista?"Tantissima, ma purtroppo sembra che oggi ce lo stiamo dimenticando. L’artista dovrebbe avere una visione libera, quasi premonitrice dei tempi, per la sua fortuna e al tempo stesso condanna di riuscire a vedere la realtà con una lente privilegiata. L’attore è testimone del proprio tempo, quindi non dovremmo mettere l’ego davanti a una responsabilità che invece dobbiamo assumerci, creando delle domande senza per forza dover dare delle risposte".
Sofia Vegezzi