In piedi, entra la Corte. Togati e ’popolari’ insieme per il verdetto. Colpevole o innocente?

Giudici professionisti e ’comuni cittadini’ (prescelti da una lista stilata dai Comuni) decideranno la sorte dell’imputato Daniele Severi, accusato di avere ammazzato e decapitato il fratello Franco.

In piedi, entra la Corte. Togati e ’popolari’ insieme per il verdetto. Colpevole o innocente?

In piedi, entra la Corte. Togati e ’popolari’ insieme per il verdetto. Colpevole o innocente?

Ogni voto vale uno. Se come slogan politico non portò le fortune che s’attendevano i promulagori, in diritto le cose vanno diversamente. Il principio è un caposaldo. Ed è regolato dall’articolo 527 del codice di procedura penale. Una volta che accusa e difesa hanno esposto i loro argomenti nel dibattimento, i membri del collegio si riuniscono in "camera di consiglio"; che in gergo definisce la procedura di raggiungimento del verdetto, ma è pure, fisicamente, la stanza in cui i giudici deliberano, in segreto, le loro conclusioni.

In questo caso il luogo "segreto" è un vano che sta nelle vicinanze dell’aula della Corte d’Assise del palazzo di giustizia di piazzale Beccaria dove in questi mesi s’è sgomitolato il processo Severi. Domani la sentenza. Cosa decideranno i sei giudici popolari e i due togati? E come funziona il rito del verdetto? Scordatevi i film americani. Su tutti, ’La parola ai giurati’, capolavoro del 1957 diretto da Sidney Lumet, col giurato "numero 8", Henry Fonda, che grazie ai suoi dubbi ribalta alla fine un verdetto che pareva scontato contro l’imputato, accusato d’omicidio, e alla fine assolto.

In Italia non funziona così. Qui – come in Francia o Germania – vige il civil law, imperniato sulla preminenza del diritto legislativo, a differenza del common law, centrato sui precedenti giudiziari (Gran Bretagna e Usa). E inoltre qui il collegio è unico, ossia ’scabinato’: popolari e togati insieme, non come nella ’giuria’ composta da soli da ’cittadini comuni’. E sul punto i giuristi si scontrano da decenni; per molti i due togati professionisti "potrebbero prevalere sulle ’sensazioni’ dei ’prescelti del popolo’". Chissà. E poi da noi le sentenze vanno motivate. Nel common law invece impera il verdetto monosillabico ("colpevole", o "non colpevole), senza motivi, come una dichiarazione d’amore.

A presiedere la Corte c’è Monica Galassi. Curriculum vasto nella magistratura, Galassi comincia la sua carriera negli anni Novanta come pubblico ministero, a Forlì. Il suo apogeo è il caso Predi, l’uomo che venne condannato in via definitiva all’ergastolo per avere sterminato, a Lizzano di Cesena, nel febbraio 2000, la sua famiglia. Galassi chiede e ottiene il carcere a vita. Verdetto che resterà tale fino alla Cassazione, nonostante fino all’ultimo Predi abbia negato quello sterminio. Dopo aver lavorato a Ravenna come giudice, Galassi è tornata a Forlì. Adesso è vice presidente del Tribunale. A ’latere’ – al suo fianco – c’è Marco De Leva, togato giovane ma da anni a in servizio in città, sempre in veste di giudice. Poi ecco, i ’popolari’. Cinque uomini e una donna. Più due ’riserve’ (un uomo e una donna, in caso di defezione di uno dei ’titolari’).

Galassi, all’inizio del procedimento, dispose di "non fotografarli, per ragioni di riservatezza e sicurezza". La loro identità, per il pubblico di questo caso "crudele e atroce" – parole che accomunano accusa e difesa –, "non è nota". Non possono parlare del processo con nessuno, neanche coi famigliari. Ma domani devono decidere se Daniele è colpevole o innocente, se merita l’ergastolo o no. Prescelti sulla base "di liste di idonei compilate dai Comuni" (in un’età compresa tra i 30 e i 65 anni) nel territorio della provincia su cui insiste la competenza della Corte, i ’popolari’ devono avere "una buona condotta morale" (concetto, questo, mai chiarito, ma rimasto tale dal 1947) e almeno il diploma di scuola media.

Ed eccolo il prinicipio ’incontrovertibile’ del diritto: su ogni questione, "dalla colpevolezza alla determinazione della pena", il collegio vota e "ogni voto vale uno". Si parte con il responso del giudice popolare più giovane (per evitare che venga influenzato dagli altri) e si finisce con quello del giudice togato più anziano. Se non c’è unanimità, il codice prescrive che vada applicata "la pena favor rei", quella che "favorisce di più la persona imputata". Ovvero, in dùbio pro reo. D’altronde, dice Manzoni nella ’Colonna Infame’: "È men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore".

Maurizio Burnacci