Enrico Agostini, 69enne di Meldola, ha trascorso 41 anni della sua carriera come dentista nel carcere di Forlì. Un percorso ricco di sfide e soddisfazioni, che martedì giungerà al termine con il suo pensionamento nell’ultimo giorno dell’anno. Agostini gestisce anche uno studio professionale privato nella sua Meldola, dove continuerà a operare.
Agostini, com’è iniziata la sua attività lavorativa in carcere?
"Ero molto giovane, stavo facendo il tirocinio curriculare all’ospedale Morgagni quando nel 1983 si è liberato il posto in carcere. A fare richiesta c’ero solo io. Pensavo sarebbe stata un’esperienza breve e invece sono rimasto 41 anni. È un ambiente che ti segna ma mi ha permesso di imparare molto. Ho compiuto circa un migliaio di estrazioni e un centinaio di procedure curative".
Come s’è evoluto il suo ruolo alla Rocca nel tempo?
"Negli anni Ottanta avevamo una sola poltrona simile a quelle dei barbieri, e ci occupavamo solo di estrazioni dentali. Il mio assistente era un agente, e lavoravo una mattina a settimana. Negli ultimi vent’anni, però, abbiamo introdotto un’infermiera, migliorato la strumentazione e ampliato i servizi, includendo anche procedure conservative e protesi, a carico dei pazienti. Le sedute settimanali sono diventate due. Ed è cambiata anche la popolazione detenuta".
Cioè?
"Negli anni Ottanta, erano quasi tutti italiani. Oggi 8 visite su 10 sono a pazienti stranieri. La principale difficoltà è la barriera linguistica: a volte è disponibile un traduttore, ma altre volte no, rendendo la comunicazione più complessa".
Qual è stata l’esperienza più significativa con i detenuti?
"Mi è successo solo una volta che un carcerato mi dicesse ‘ho sbagliato e devo espiare la mia pena’. Mi colpì, in genere, si professano tutti innocenti. Una donna accusata di omicidio, inizialmente molto chiusa, con il tempo si è aperta con me. Nel 2013, mi ha fatto un regalo speciale: un quadro da lei dipinto, che raffigurava un branco di lupi. Questo gesto mi fece intuire quanto la sua vita fosse stata dura".
Le è mai capitato di affrontare situazioni difficili?
"Una volta sola un detenuto ha avuto una reazione eccessiva in ambulatorio: voleva uscire a tutti i costi, gridava e si divincolava. Sono dovute intervenire le guardie e, infine, l’abbiamo sedato per poter procedere con le cure. Non ho mai ricevuto minacce e comunque di solito anche il più delinquente quando si mette sulla poltrona diventa un agnellino".
Il rapporto che si crea con i carcerati è diverso rispetto a quello con un qualsiasi altro malato?
"È importante capire che, in casi del genere, un detenuto è prima di tutto una persona da curare. Non mi soffermo mai sulla pena che li ha portati in carcere, perché conoscere il capo d’accusa potrebbe influenzare il mio giudizio. Tuttavia, ci sono situazioni in cui è impossibile ignorarlo: a Forlì, ad esempio, esiste un reparto speciale chiamato ‘Oasi’ dove sono ospitate persone responsabili di gravi delitti contro la persona, inclusi crimini verso i bambini".
Ora che mancano pochi giorni alla pensione, qual è il messaggio che vuole trasmettere ai suoi pazienti della casa circondariale forlivese?
"Ho lasciato in ambulatorio un cartello per i detenuti con una frase della Divina Commedia di Dante: ‘Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’. È il mio augurio per loro".