di Fabio Gavelli
"Dovremo portare la mascherina ancora per un po’ di tempo, oltre ad adottare le precauzioni che abbiamo imparato da un anno a questa parte, ma, grazie alla vaccinazione per tanta gente e all’arrivo del bel tempo, con la possibilità di stare all’aria aperta il più a lungo possibile, il virus sarà sperabilmente sotto controllo". La dottoressa Maria Pia Ruffilli è rientrata da poco, per qualche settimana, nella sua Forlì da New York, dove fino al suo recente pensionamento ha lavorato in Pfizer, con incarichi di alto profilo; per ultimo è stata responsabile dei Public Affairs per tutto il mondo eccetto gli Usa. La sua più che trentennale esperienza all’interno del colosso farmaceutico, che da un anno per il noto vaccino è sulla bocca di tutti, porta a cominciare l’intervista proprio dalle vicende recenti.
Dottoressa Ruffilli, ha notato differenze nel modo di affrontare l’emergenza Covid fra gli Stati Uniti, dove abita da 14 anni, e l’Italia?
"Un esempio. Di recente mia madre, che ha 101 anni, è stata vaccinata a domicilio, qui a Forlì. Il medico di base non aveva ancora preso iniziative, e io, da New York, ho mandato una mail all’Ausl, chiedendo cosa fare. Loro hanno lavorato direttamente con il medico, hanno messo mia madre nell’elenco E i vaccinatori sono arrivati a casa nel giro di poco tempo. Mi sono sembrati veramente efficienti. Negli Usa questo servizio, per le persone che non possono muoversi, non si fa ancora. Si sono vaccinati subito i residenti delle case di riposo, ma ora si comincia a disegnare il servizio a domicilio, e non solo per gli anziani i non autosufficienti".
Però negli States la campagna vaccinale è cominciata prima. Lei ha ricevuto già le dosi?
"Sì, prima hanno pensato ai più anziani, poi da metà gennaio hanno iniziato con le persone dai 65 anni in su. Ho ricevuto la prima dose a Manhattan, dove abito e sono stata contenta di vedere che era una fiala di Pfizer: è stato un caso, il giorno successivo avrei avuto il Moderna, che era l’unico altro vaccino autorizzato. A metà febbraio ho fatto poi il richiamo. Ora in molti Stati stanno vaccinando tutti, dai 16 anni in su".
Da noi si discute molto della maggiore o minore ’affidabilità’ di un vaccino o un altro. Lei cosa ne pensa?
"Da medico che ha lavorato molti anni nel settore delle malattie infettive, dico che l’importante è vaccinarsi. Non credo sia appropriato fare paragoni fra un prodotto e un altro, perché non esistono studi comparativi. Conosco fra l’altro molto bene chi lo ha messo a punto in Pfizer, persone che lavorano ai vaccini da decenni, mi fido del tutto di loro".
Dal punto di vista comunicativo non crede si commettano degli errori? Dire che un vaccino è sicuro al 100% è un’affermazione discutibile, poco scientifica. Non sarebbe meglio paragonare il tasso di rischio dell’eventuale effetto collaterale alla probabilità di ammalarsi gravemente o morire di Covid?
"Assolutamente sì. La comunicazione non è stata delle migliori: per esempio, il vaccino Pfizer ha una copertura altissima, si parla del 90% abbondante; il 100% è impossibile, ma come con qualunque farmaco o vaccino. Pensi che il vaccino antinfluenzale di solito copre per il 60-70 per cento. Qualcuno si ammala dopo il vaccino? Può capitare, ma in genere si tratta di forme più lievi".
Sono stati avanzati anche altri dubbi, sulla fase di produzione. Che ne pensa?
"Non è vero che si sono saltati dei passaggi per mettere a punto il vaccino, per accelerare i tempi si sono anticipati processi che di solito vengono fatti più tardi. Ad esempio, si è iniziata la produzione mentre ancora si faceva ricerca. Pfizer ha investito al buio miliardi di dollari, senza prendere un soldo dal governo americano. E produrre un vaccino è molto complicato e costoso".
Dall’attualità al passato: come ha fatto dalla piccola Forlì a entrare nel mondo delle grandi casa farmaceutiche?
"Dopo il diploma al Liceo classico Morgagni, mi laureai alla Cattolica a Roma, quindi entrai al policlinico Gemelli, mi piaceva molto la vita di reparto. Un giorno un medico mi propose di lavorare nell’industria farmaceutica e provai. All’epoca Pfizer in Italia era una piccola azienda, poi è cresciuta moltissimo e negli anni mi sono occupata di tanti settori, dai rapporti con le istituzioni al marketing, quindi ho viaggiato per lavoro in tanti Paesi e dal 2007 ho lavorato a New York, città che mi piace molto, per le grandi opportunità che offre".
Oltre alla medicina, un’altra sua passione giovanile è stata il giornalismo.
"Cominciai da ragazza proprio al Carlino, scrivevo di sport e di musica, ricordo che intervistai un’allora giovane e poco famosa Gianna Nannini. Ugo Ravaioli, purtroppo scomparso di recente, è stato un maestro per me. Fra l’altro fu per un po’ anche il mio allenatore di basket, sport che praticai alla Victoria e alla Libertas. In quella redazione c’erano anche Alberto Mazzuca, che la dirigeva, Luciano Foglietta, Roberto Zoli e un altro giovane, Maurizio Gherardini, che da molti anni è un dirigente sportivo ai massimi livelli. Curava una rubrica di basket: era nella scrivania di fianco a me, che invece seguivo il calcio".
Torna spesso a Forlì?
"Sì, qua per l’appunto ho ancora mia madre, parenti e alcuni amici. Prima che scoppiasse la pandemia pensavo che avrei vissuto sei mesi negli Stati Uniti, un po’ in Romagna e il resto del tempo a vedere il mondo. Ma ora i programmi sono tutti rimandati".