
Tullio Solenghi in scena a Ferrara si trasforma nel grande Gilberto Govi, questa volta nei panni del pungente Felice Pastorino. Una commedia intramontabile, tra risate, intrighi e l’eterna lotta tra amore e interesse. Con la regia di Solenghi e le scene firmate da Davide Livermore, lo spettacolo è un omaggio vivo al teatro di qualità
di AndriY Sberlati
Attore, comico, doppiatore e regista, Tullio Solenghi – parte del famoso "Trio" con Massimo Lopez e Anna Marchesini – torna a Ferrara con "Pignasecca e Pignaverde", in scena al comunale ’Claudio Abbado’ venerdì e sabato, alle 20.30, e domenica alle 16.
Come le piace definirsi?
"Attore brillante. A quello aspiravo quando studiavo teatro. Mi sarebbe piaciuto diventare come Alberto Lionello".
Se dovesse lavorare con qualcuno con cui non ha mai lavorato, chi sarebbe e perché.
"Gigi Proietti. Se dovessi fare un nome il primo sarebbe lui. Ho avuto modo di conoscerlo, esserci amico e sentirlo assiduamente. Ci chiamavamo per raccontarci le barzellette. Era un talento immenso".
Questo spettacolo è il secondo capitolo di un progetto iniziato nel 2022 con ’I maneggi per maritare una figlia’. Cosa ci può dire?
"Sicuramente è un passo avanti rispetto ai "maneggi". Questa volta si approfondiscono alcuni lati oscuri, quelli di un padre padrone che impone alla figlia un matrimonio di convenienza, organizzato in base al conto in banca. C’è anche una componente comica molto efficace, però con una vena di quotidianità".
Lei parla di maschera. La intende come strumento o come falsa apparenza di pirandelliana memoria?
"Come strumento scenico. Govi dava un contributo essenziale alla sua drammaturgia. La maschera nel teatro goviano è essenziale per elevarsi ed elevare".
Se dovesse descrivere lo spettacolo con una frase, quale sarebbe?
"La storia dell’avaro in salsa genovese".
Che rapporto ha con il defunto, ma immortale, Gilberto Govi, a cui fa riferimento nelle movenze e nella mimica?
"Io credo sia una sorta di rispetto nei suoi confronti. Quando si affronta un personaggio del genere bisogna curare i minimi dettagli. Io l’ho studiato al microscopio, esercitandomi per quanto riguarda andatura, postura, movenze e mimica facciale. In più, oltre a tutto questo, ho un’ora di trucco ogni sera. Credo che questa trasformazione abbia la funzione di transfert, in cui mi calo nel personaggio per diventare lui".
Il suo ruolo, quello del tirchio Felice Pastorino, ricorda l’Harpagon di Moliére, ma in versione ligure. È voluta come cosa? "L’avaro è una maschera scenica che risale ad Aristofane, Plauto e Terenzio. È un archetipo teatrale che ogni generazione di autori ha scelto di approfondire, ognuno a modo suo".
Quanto è sottile il filo che separa la satira comica dal cliché stereotipato del genovese?
"Al di là dell’assonanza tra ’genovesità’ e avarizia, detta parsimonia, vi è un gioco scenico che, a prescindere dalla location, offre una riflessione unica, per quanto sia uno stereotipo teatrale universale".
Come un archeologo teatrale, scava per trovare la verità interpretativa dell’opera.
"Credo che l’archeologia teatrale abbia una connotazione positiva. Si sposa con la nostra storia teatrale. Ci sono momenti che vanno riprodotti quasi in maniera intatta, senza attualizzarli. La loro forza è quella di resistere trasversalmente in ogni epoca. Io volevo proporre una foto d’epoca con un po’ di nostalgia e sorpresa".
Che messaggio lancia?
"La mia è una proposta, quella di tornare a ridere e divertirsi con le basi della storia della comicità italiana, riscoprendone una grande attualità".
Progetti futuri?
"Ci sono. Riprenderò lo show con Massimo Lopez ’Dove eravamo rimasti?’. Poi vorrei concludere Govi con una trilogia. Penso che in futuro metterò in scena ’Colpi di timone’, sempre suo".