Avrebbe potuto essere l’avvincente copione di un romanzo giallo, se non stessimo trattando di tragica realtà. Di un giovane uomo ucciso all’apice della carriera di calciatore, perché si era ’permesso’ di lasciare la fidanzata che non amava più. Un’onta nella Cosenza di fine anni Ottanta. Un’onta da lavare con il sangue. Cui si è aggiunta l’ignominia di fingere un improbabile suicidio. Finzione palese fin da subito dopo il ritrovamento del corpo di Donato Denis Bergamini, la sera del 18 novembre 1989, in provincia di Cosenza. Evidenze che sono state vergate nero su bianco nelle oltre 500 pagine di motivazioni con cui la Corte di Assise di Cosenza (presidente Paola Lucente) ha spiegato la condanna dell’ex fidanzata del calciatore, Isabella Internò, a 16 anni di carcere per concorso in omicidio premeditato e volontario. Soddisfazione ma anche tanta rabbia per Donata Bergamini, la sorella del calciatore ucciso, perché "mio padre (Domizio, ndr) non ha potuto vedere questa giustizia", ma anche "perché tutto era chiaro fin dall’inizio, bastava volerlo vedere", ha sottolineato Donata. Ma non solo, sul silenzio assordante dell’imputata, Donata ha una sua convinzione. "Se sino ad oggi non ha parlato il motivo c’è – ha commentato - . Sarebbe giusto restasse in carcere (oggi Internò è libera, ndr) fino a quando non racconta la verità su tutto e su tutti. Cosa posso dire su persone se così le vogliamo chiamare che non hanno avuto rispetto neppure per un corpo inerme dopo averlo ucciso, deriso e infangato?". I giudici hanno detto, anzi scritto molto. Nelle cinquecento pagine c’è la ricostruzione non solo di un processo di tre anni, ma anche di 35 anni di indagini, aperte, archiviate e riaperte. Ma ci sono anche passaggi che fanno chiaramente capire che quanto oggi è emerso era palese già 35 anni fa.
Suicidio infondato. Proprio in una sezione specifica, la Corte cosentina mette in evidenza come già all’epoca della morte o poco dopo, l’ipotesi del suicidio non reggesse. A partire dalla prima autopsia, eseguita quasi due mesi dopo la morte del calciatore dal professor Francesco Maria Avato, che dopo l’esecuzione dell’esame, il 4 gennaio 1990, in cui era già chiaro che "Bergamini sicuramente non sotto l’influenza di molecole non volatili – scrive la Corte – venne investito da un automezzo pesante dotato di moto lento, mentre si trovava già a terra". Non solo e più importante "lo stesso perito Avato, al pari dei Ris – si legge ancora nelle motivazioni – riteneva non ricorrenti nel caso di specie, tutte le cinque fasi dell’investimento: l’urto, la proiezione al suolo, ovvero l’abbattimento e la propulsione. C’era solo lo schiacciamento, l’arrotamento e una breve trascinamento...e anche una certa qual sofferenza polmonare". Cioè asfissia, soffocamento che è ritenuta la reale causa della morte di Bergamini.
Le bugie di Internò. "Le stesse modalità del presunto suicidio, riferite da Isabella Internò si palesano inverosimili", scrive ancora la Corte nelle motiviazioni della condanna di Internò a sedici anni di reclusione. "Non si spiega infatti, perché Bergamini avrebbe dovuto suicidarsi". E i racconti dell’imputata non hanno affatto convinto i giudici. "Le dichiarazioni dell’imputata – scrivono a pagina 390 – sulle modalità della morte di Bergamini, tenacemente difese nel corso degli anni sono inverosimili e, pertanto, mendaci". Poi la ricostruzione di tutte le versioni raccontate da Internò nell’immediatezza, con atteggiamento "freddo e distante". Buttato a tuffo, dopo aver cercato di fermare 5 auto, poi tre. Poi lui che si gira prima di buttarsi e la saluta dicendo "Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo". Ma lei, dalla piazzola dove era, non poteva vederlo nel punto dove sarebbe stato investito.