
di Federico Malavasi
Sei anni di calvario, tra indagini e processo. Un’odissea per vedere riconosciuta la propria innocenza di fronte all’accusa di avere circuito un ospite della casa di riposo da lei gestita per impossessarsi dell’eredità. Una contestazione pesante dalla quale Anna Maria Corà, 65 anni, legale rappresentante della casa di riposo Monsignor Ungarelli di Marrara, è riuscita a liberarsi soltanto pochi mesi fa. Il 30 marzo, infatti, il giudice Sandra Lepore l’ha assolta perché il fatto non sussiste, accogliendo peraltro la richiesta di assoluzione avanzata dalla stessa pubblica accusa. Un sospiro di sollievo per chi, per anni, ha dovuto portare avanti la propria attività con quel ‘marchio’ sulla pelle. "Il fatto – racconta Corà – ebbe un’importante rilevanza mediatica. Marrara è una piccola frazione e la voce si era diffusa rapidamente. La mia attività aveva avuto un momento di ‘ferma’ subito dopo la notizia. Sembrava che io fossi una persona pericolosa e da evitare, dopo una vita passata a lavorare nel mondo dell’assistenza".
Per capire come è iniziata la battaglia giudiziaria di Anna Maria bisogna riavvolgere il nastro fino al 2014, quando alla Monsignor Ungarelli entrano come ospiti due fratelli. Uno di loro, piuttosto facoltoso, redige un testamento nominando come suo erede il fratello e, alla morte del familiare, la stessa Corà. L’erede designato, però, muore prima del redattore del testamento. Al decesso del secondo fratello (sopraggiunto l’8 dicembre del 2014), spunta il testamento olografo che assegna tutti i beni (per un valore di oltre un milione di euro) alla responsabile della struttura. La disposizione viene però impugnata dalla ex moglie dell’anziano che denuncia la 65enne. Nel 2015 inizia un procedimento penale nell’ambito del quale si avvicendano ben tre giudici. A carico di Anna Maria Corà, assistita dall’avvocato Irene Costantino, viene formulata un’imputazione alternativa, cioè due differenti ipotesi accusatorie riguardanti lo stesso fatto (una per circonvenzione di incapace e una per appropriazione indebita e falso), entrambe da discutere in sede di processo. In fase di indagini vengono poi disposte due consulenze, una grafologica per verificare l’autenticità del testamento e una psichiatrica per appurare la capacità di intendere dell’anziano. Lo psichiatra, pur ritenendo il pensionato suggestionabile, non individua una reale incapacità di intendere. Nemmeno le analisi sulla calligrafia rivelano elementi tali da indirizzare verso un giudizio di colpevolezza.
Anche sulla scorta delle dichiarazioni del notaio, il giudice esclude dunque che, al momento della redazione del testamento, l’anziano fosse in una situazione tale da farsi convincere a dare disposizioni contrarie alla propria volontà. Risultato, il tribunale accoglie la richiesta della procura e assolve la responsabile della casa di riposo con la formula più ampia. Scontata la soddisfazione della 65enne. "È stata dura, ma ora sono alle stelle – commenta –. Ero sicura di me e, in questa lunga vicenda, non ho mai avuto cedimenti". E potrebbe non essere finita qui. Già, perché Corà e il suo difensore stanno valutando di fare ricorso per l’eccessiva durata del processo sulla base della legge Pinto. "Arrivati a questo punto – chiude la 65enne – è una questione di principio".