di Mario Bovenzi
Era un artigiano, ma anche un po’ un inventore. E in paese lo conoscevano tutti perché nella sua officina, tra un colpo di martello, sapeva forgiare i sogni, anticipare i tempi. Ieromine Balboni già nel 1965, quando intorno a lui in pochi sapevano il significato della parole "riciclare", fondò a Cento la prima impresa che mangiava gli scarti della plastica, li lavorava per traformarli in granelli colorati, materiale pronto a rinascere dalle ceneri del mondo del consumismo. A raccontare questa storia è il figlio Omero Balboni, 73 anni, che ha preso il testimone che a sua voltà passerà e in realtà ha già passato al figlio Andrea, la tuta da lavoro, il volto dall’espressione franca ai piedi di uno dei giganteschi silos. Tre generazioni, metri quadrati di piazzale e capannone a Sant’Agostino dal quale passa un fiume di plastica. Sedie, tappi, contenitori del pomodoro, cassoni. Che vengono spezzettati, tritati, diventano granelli, finiscono in tutta italia per diventare contenitori magari proprio dei rifiuti per la raccolta differenziata. Un ciclo che si chiude, una boccata d’ossigeno per l’ambiente e il mare che nella plastica sta affogando.
"E pensare che in quegli anni quando mio padre raccontava che riciclava plastica, la gente non capiva, non ci credeva", scuote la testa Omero alla guida dell’impresa della Cna. Aveva ragione lui, lo hanno sentenziato i posteri in un pianeta che si è scoperto – obtorto collo – green, verde che dir si voglia, ecosostenibile, da qualche anno 4.0. "Ho lavorato per anni accanto a mio padre poi nel 1982 – racconta – quando è andato in pensione ho preso il suo posto nell’impresa". Al suo fianco la moglie, Simonetta Branchini. Che attraversa il piazzale al volante del muletto. Si ferma, un bel sorriso. Dice: "Io in ufficio non ci so proprio stare, mi piace l’aria aperta. Questo è il mio lavoro, guidare il ’mulo’". E sparisce nel piazzale. "Una donna forte", la descrive con affetto Omero. "Più che riciclaggio – dice Balboni, insieme alla moglie insignito del titolo di maestro artigiano – è meglio dire rigenerazione dei materiali plastici. Noi, da tre generazioni, rigeneriamo". E forse saranno quattro le generazioni un giorno perché adesso è troppo presto per dirlo. Dovranno scegliere cosa fare da grandi Giorgia, 12 anni, Emma, 5, e Olivia, due anni, le nipotine. Balboni passa da una macchina all’altra – le prime le avevano costruite proprio loro – e descrive le lavorazioni usando le parole della passione, perché quel lavoro per lui è vita. "Le lavorazioni sono due – indica sulle dita di una mano –. Una è la macinatura dei materiali che avviene con dei mulini. Sminuzzano e trasformano i materiali in una pioggia di granelli". Un mare colorato che parte per aziende di tutta Italia dove torna a vivere, rinasce, sotto un’altra forma. Diventano una sedia, contenitori, sacchi e sacchetti. "Tutto quello che con la plastica si può fare", precisa. Anche questa azienda – che l’energia la divora – ha subito forti rincari per il costo della luce. "La bolletta è triplicata", fa i conti. Grandi numeri come quelli del fiume di plastica che lì viene lavorato, 30 tonnellate, con turni a volte di 24 ore su 24, undici dipendenti. "Siamo piccoli ma agguerriti", è l’orgoglio a scandire le parole. "Qui è un porto di mare, i camion vanno e vengono, noi riusciamo a macinare tutto quello che è plastica. Non sono in tanti a farlo, noi abbiamo cominciato per primi. Grazie a mio padre, che sapeva guardare lontano". Anche gli alunni hanno varcato il cancello, studenti universitari ci hanno scritto tesi sull’ambiente. Ieromine, primo capitolo.