FRANCESCO FRANCHELLA
Cronaca

"Mio nonno, il suo grande legame con l’Italia"

Il nipote John Mucha (presidente della fondazione dedicata all’artista ceco) dice nel catalogo: "I viaggi lo hanno notevolmente influenzato"

Il nipote John Mucha (presidente della fondazione dedicata all’artista ceco) dice nel catalogo: "I viaggi lo hanno notevolmente influenzato"

Il nipote John Mucha (presidente della fondazione dedicata all’artista ceco) dice nel catalogo: "I viaggi lo hanno notevolmente influenzato"

Lo si notava venerdì mattina, nel salone di Palazzo dei Diamanti, durante l’inaugurazione della mostra su Alphonse Mucha e Giovanni Boldini (visitabile fino al 20 luglio). Notava qualcuno del pubblico (evidentemente qualcuno che ha una certa famigliarità con i modi dell’arte) il bell’impatto, del tutto casuale, che creava la visione degli affreschi staccati con i Quattro Evangelisti del Maestro di San Bartolo, appesi in Pinacoteca a sovrastare le immagini che scorrevano, proiettate sulla parete, delle opere di Alphonse Mucha e di Giovanni Boldini.

Sopra, gli spicchi provenienti dalla calotta absidale dell’omonima chiesa di XIII secolo; sotto, l’accesa sensualità floreale di Mucha e il tocco estroso e vibrante del ferrarese Boldini, protagonisti indiscussi del mondo culturale e artistico di fine Ottocento e inizio Novecento. A Ferrara non è mai stato così evidente, come in quella proiezione casuale, quanto la pittura, sacra o profana che sia, si possa ritenere la prima e principale testimone dello scorrere delle epoche. Pensiamo ai committenti: una committenza squisitamente religiosa, quella del Maestro di San Bartolo; temporale e altolocata, senz’altro laica, quella di Mucha e Boldini, immersi nella Belle Époque, traghettatori di un cambiamento e di un nuovo ruolo delle arti. Il distacco è molto palese? Sì, lo è. A livello stilistico, e non solo. È quasi ovvio. Ma il legame con l’Italia, con la cultura figurativa italiana, di cui il Maestro di San Bartolo (tanto quanto gli altri maestri a lui contemporanei) costituisce il pregresso sostanziale, è un elemento che nei pittori di ogni tempo non va ignorato.

Così, non sembra altrettanto casuale quello che racconta, in catalogo, il nipote di Mucha, John Mucha, presidente della fondazione dedicata all’artista ceco: "quando era un giovane artista – scrive – mio nonno viaggiò in tutta Italia con il sostegno del suo mecenate, il conte Eduard Khuen-Belasi, e i suoi viaggi lo hanno notevolmente influenzato per il resto della vita". A questa dichiarazione si deve affiancare quella di Sarah Mucha, pronunciata all’inaugurazione di venerdì: "Mucha amava l’Italia, dov’è stato per due volte nella sua vita: si sentiva molto in collegamento con gli artisti italiani, soprattutto con Raffaello". E addirittura, da Parigi, "diceva di riuscire a parlarci, a parlare con Raffaello".

Come leggere queste parole? Il primo senso è probabilmente spirituale: come se un filo invisibile collegasse Roma e la Repubblica Ceca, dove Mucha è nato. Tale connessione, poi, si potrebbe interpretare anche alla luce dello stile. Non è una novità: per un artista, il viaggio in Italia era una tappa obbligata della propria formazione. Venezia, Roma, Firenze. Mucha avrà senz’altro visto tutto quello che si poteva vedere di Raffaello, Michelangelo, ma anche di Tiziano o Leonardo. Assistendo a quanto ha prodotto, nelle sale di Palazzo dei Diamanti, il sospetto è che – tra spinte moderniste incipriate di giapponesismi, richiami gotici e roccocò – un pensiero all’Italia non sia mai mancato: la donna della litografia di Waverley Cycles sembra uscita da un banchetto degli dei di Raffaello; i suoi capelli, così raccolti e insieme scomposti, potrebbero (chissà?) richiamare le acconciature metalliche di Parmigianino.