REDAZIONE FERRARA

Il manager degli anni d’oro: "Erano rimasti 700 operai. Così risollevai la Berco"

Giovanni Bertoni per anni è stato l’amministratore delegato della fabbrica. Prese le redini negli anni ’80 quando la famiglia cedette alla multinazionale.

Il manager degli anni d’oro: "Erano rimasti 700 operai. Così risollevai la Berco"

Giovanni Bertoni per anni è stato l’amministratore delegato della fabbrica. Prese le redini negli anni ’80 quando la famiglia cedette alla multinazionale.

Una trattativa estenuante al termine della quale Gianni Bertoni cede il restante 50% alla multinazionale tedesca Hoesch. E’ il nel 1986. Pochi mesi, luglio dello stesso anno, Giovanni Bertoni – ha lo stesso cognome della famiglia che aveva fondato l’impresa, solo una coincidenza – viene scelto per guidare la fabbrica. E’ un nuovo inizio, si punta su quello che viene definito un ’manager illuminato’. Il curriculum è di tutto rispetto. Nel 1979 venne nominato direttore generale di Massey Ferguson. Due anni dopo amministratore delegato di Isotta Fraschini (gruppo Iri/Finmeccanica). Deve togliere l’azienda di Copparo dalle sabbie mobili nelle quali si trova. Ci riesce.

"C’erano in quel periodo, sto parlando degli anni Ottanta, nello stabilimento tra i 600 e i 700 dipendenti, siamo riusciti a dare il via ad un percorso che ha portato il personale a mille, più di duemila unità. Una crescita inarrestabile, continua", racconta Giovanni Bertoni, 86 anni, amministratore delegato di quello che allora era un colosso, simbolo il puma. Guiderà l’azienda per anni. Cambiamenti che si succedono a cambiamenti fino al 1992, quando Berco diventa ThyssenKrupp. "Vedo quello che avviene in questi giorni – le sue parole – e sono profondamente dispiaciuto, è difficile dire cosa è successo. Non sono da anni in quel mondo e non spetta a me interv enire per spiegare dinamiche imprenditoriali, tra l’altro in un momento così delicato per l’azienda certo, per tante famiglie. Il mondo è cambiato, queste sono crisi strutturale non di mercato". Una pausa, poi ricordi che vanno a fondersi con l’attualità.

"Una cosa forse posso dire – riprende –. Quando ero alle redini di Berco non sono mai voluto andare all’estero, non ho mai portato lavorazioni, segmenti all’estero. Tutto veniva prodotto da noi, in Italia. Questo ho imparato è il modo migliore per difendersi, per stare sul mercato. E per riuscire a crescere". Un salto al passato, che in questi giorni sembra affiorare. Con quegli esempi di imprenditori tutto d’un pezzo, che hanno fatto la storia di un paese. "Copparo è la Berco", dicono i cittadini, ormai unico argomento ai tavolini dei bar i numeri della crisi. Sono 480 gli esuberi annunciati per lo stabilimento che si trova nel paese, 480 su 1200 dipendenti. Non è solo nostalgia. Berco nasce come piccola bottega di riparazioni. Grazie alla lungimiranza e alle capacità tecniche del suo fondatore Vezio Bertoni. La bottega si trasforma in un’officina, in una fabbrica. Ripara anche automezzi e macchine agricole abbandonati dall’esercito americano nelle nostre campagne. Vezio scommette sul paese, la bottega si trasforma in un’officina di 30 dipendenti che produce anche macchine utensili e pezzi di ricambio per trattori. Il cingolo doventa un simbolo, è all’ingresso dello stabilimento. Con l’arrivo dell’imprenditore Roberto Cotti nasce ‘Bertoni & Cotti’. E la produzione si allarga. Escono dalla catena di montaggio presse, torni, levigatrici, attrezzature per autofficine. Poi Bertoni rileva la quota di Cotti, diventa tutto suo. "Sono entrato quando la famiglia ha ceduto tutto, l’ultimo 50% di quote che ancora aveva in mano", racconta Giovanni Bertoni. Che riesce a risollevare un’azienda che rischiava di chiudere, fa diventare Berco nei successivi 18 anni un’impresa globale, forte l’innovazione dei processi produttivi. Forte anche la vicinanza alle maestranze. "Quando abbiamo tagliato il traguardo dei cento anni – ricorda – ho scritto una lettera. Era indirizzata a tutte le maestranze, del passato, del presente. A tutti quelli che hanno fatto con il loro lavoro l’azienda. Era un modo per ringraziarli".

Mario Bovenzi