di Francesco Franchella
"Questo vuole essere il libro della vendetta e della giustizia, dell’oblio e del ricordo. Con la speranza che ci sia sempre qualcuno pronto a risvegliarci dai nostri incubi e amnesie nazionali, ricordando chi siamo stati, nel bene e nel male", le parole di Alessandro Carlini risuonano come una presa di coscienza sui fenomeni del secondo dopoguerra ferrarese: una presa di coscienza documentata ed imparziale, nonché dettata dal sentimento di un giornalista, che vuole mettere in luce quelle zone rimaste a lungo nel livido oblio della storia. ‘Gli Sciacalli’ (ed. Newton Compton) si pone così in continuità con la Ferrara raccontata da Giorgio Bassani, in un dialogo diacronico che unisce i due autori e che sfocia nel genere del romanzo storico di rimando vagamente manzoniano.
Come definirebbe il genere del libro?
"Forse noir, perché ho ricostruito le indagini fatte da Antonio Buono, giudice di cui ho letto le memorie e che operò e visse a Ferrara negli anni del secondo dopo guerra. Buono parla dell’eccidio di Piangipane del 1945, uno degli argomenti del libro: fu il primo ad arrivare al carcere dopo il massacro. I corpi fumanti, l’odore nauseabondo…è tutto riportato nelle memorie, attraverso le quali ho interpretato la figura del giudice, che ho chiamato, nel romanzo, Aldo Marano".
Di cos’altro si è servito per la ricostruzione storica?
"Di alcuni documenti inediti delle indagini del 1945, dove si parla di una banda di finti partigiani, che hanno fatto una serie di regolamenti di conti nella provincia di Ferrara e a Ferrara con omicidi ed eccidi. Dai documenti emerge che questo gruppo (la cosiddetta Banda della 1100), faceva riferimento a PC e CLN, che in seguito se ne distaccarono. La cosa interessante è che insieme ai partigiani c’erano anche fascisti infiltrati: un fenomeno che non viene molto analizzato nella storiografia".
Il suo metodo di rigorosa ricostruzione storica, in seguito romanzata, è molto simile al procedimento utilizzato da Bassani in ‘Una notte del ‘43’…
"Bassani mi ha guidato in tutta la stesura dell’opera: sia nei fatti che ha ricostruito con grande coraggio, sia nelle atmosfere. Il mio personaggio, Aldo Marano, era uno dei migliori amici del magistrato Colagrande (nel libro, Corelli) vittima dell’Eccidio del Castello: la morte dell’amico, determina in Marano la sua completa adesione all’antifascismo. Ci sono anche dei riferimenti alle geografie bassaniane: la differenza tra la città dentro le mura e la città fuori dalle mura. E così, la banda di pseudo partigiani rappresenta il mondo che viene da fuori: vuole fare legge e lo fa attraverso il mezzo automobilistico (la 1100 nera) che le permette di muoversi e di non rimanere in un unico punto".
Come si può descrivere il sentimento di chi si trovava a ricostruire quanto il fascismo aveva distrutto? Toccherà anche a noi ricostruire?
"Quello che mi preme sottolineare nel libro è che il sentimento comune di quel periodo era duplice: da una parte la voglia di dimenticare, dall’altra il desiderio di giustizia. Il protagonista è un uomo di legge, che, a causa dell’amnistia di Togliatti, si vede infranto il sogno di processare tutte le persone che avevano operato nell’illegalità. L’amnistia vanifica il suo lavoro. Amnistia che è anche metafora: significa dimenticare. È il desiderio di lasciarsi alle spalle tutto e andare avanti, un desiderio comune a tutti coloro che avevano resistito. Ecco: resistere. È quello che dobbiamo imparare dagli uomini di allora. Resistere e adattarsi, grazie all’esempio di chi prima di noi è riuscito a superare cose enormi. Poi penseremo a ricostruire".