Ferrara, 16 febbraio 2024 – C’è chi adesso si dispera, chi confida di aver pianto per non aver capito la portata di certi gesti e parole, chi schiuma rabbia per essere finito al centro di una vicenda enorme, "ma inconsapevolmente". Perché, ribadiscono gli indagati, "non siamo nè fascisti nè razzisti". Eccole le voci di quei "bravi ragazzi", come è stata ribattezzata l’operazione di Digos e Procura, che la sera del 22 dicembre erano alla cena della vergogna, in un bar-ristorante di Carlo Mayr a due passi dal ghetto ebraico. Ventiquattro persone (4 donne), tra i 23 e i 33 anni, 16 di Ferrara, le altre di Bentivoglio o originari di Vicenza e Bari, incensurati. Da quel momento indagati con una sfilza di accuse: apologia del fascismo, propaganda e istigazione all’odio razziale, vilipendio delle forze dell’ordine, minacce.
Attacca uno di loro, laureato, sportivissimo, lavoratore: "Quella sera dovevamo festeggiare il compleanno di un nostro amico e ci siamo vestiti come era già successo in passato per altre feste". Questa volta il tema scelto era carcerati e poliziotti. Gli uomini con tute arancioni come i detenuti di Guantanamo, le donne con tenute da agenti. Per alcuni, quella serata doveva rappresentare una sorta di "festa di carnevale", nulla più.
Peccato che vi sia stato, purtroppo, molto di più, almeno stando alle accuse, agli atti, alle testimonianze di chi era in quella sala a due passi dalla tavolata dei 24. Ecco allora i canti beceri e razzisti contro Fiona May, Filippo Raciti, i caduti di Nassiriya, addirittura la povera Yara Gambirasio.
"Canti da condannare – continua il ragazzo – e per questo io e qualcun altro ci siamo indignati e abbiamo cercato di farli smettere". Invano, continua. Lo stesso però sostiene di "non aver sentito canti antisemiti". Cosa ben diversa da quanto è scritto sulle carte dove si parla di "un volantino distribuito agli avventori del locale" e di "cori riportati sullo stesso foglio avente ad oggetto il razzismo, l’antisemitismo, l’apologia del fascismo e del nazismo, la propaganda ed istigazione all’odio razziale". Insomma non tanto una goliardata come qualcuno tenta di far passare.
Dice un altro: "Manco ci conoscevamo tutti a quel tavolo, io ero in mezzo e non riuscivo a uscire altrimenti me ne sarei andato. Sia chiaro, sono ben lontano da quel mondo del quale oggi io e gli altri siamo ritenuti appartenenti. Conosciamo la storia, lungi da me essere fascista, razzista o, peggio ancora, nazista".
C’è poi chi vuole chiedere "scusa" per quella che definisce "una leggerezza". Scusa alla Comunità ebraica, a tutte le vittime tirate in ballo dai "vergognosi canti", all’intera Ferrara. Ma le mazze con la scritta boia chi molla, le katane, la pistola finta senza il tappo rosso, i calendari e le immagini del Duce ritrovate in alcune loro abitazioni, come si giustificano? Qualche reperto, spiegano ancora, sarebbe di un parente nostalgico, altri catalogati goffamente come "fogli di cattivi gusto", altri ancora, "cose nascoste in un baule chiuso del proprietario dell’abitazione presa in affitto".
Poi le minacce di morte, il segno del "ti taglio la gola" e il "te la faremo pagare" riferito alla donna che ha chiamato la polizia: "Io non le ho viste nè sentite, – confida un altro - ma qualcosa è successo perché gli animi si erano surriscaldati". Colpa dell’alcol, dell’ignoranza e della leggerezza che a qualcuno ora può costare molto cara.
Possibile che nessuno, da quella tavolata, abbia avuto il coraggio di dissociarsi, alzarsi e andarsene? Di rigettare quello scempio? E poi: se la maggioranza degli indagati, presi da ubriachezza ed euforia, non ha capito la portata di ciò che stava accadendo, ci sarà stato qualcuno, come scritto ancora sulle carte, che "avrà organizzato e pianificato", anche se in maniera "rudimentale", la cena. E con che obiettivi? Domande alle quali la Procura pretende di avere risposte a partire dal 24 febbraio, giorno degli interrogatori. Per capire ruoli, responsabilità e finalità di una cena che ha fortemente indignato l’intera città.