Leggere. Una passione. In questo agitato autunno alcuni libri mi hanno accompagnato nella ri-scoperta del ruolo di Ferrara città madre di movimenti politici, sociali, etici che intrinsecamente conducono alla Storia nella più complessa accezione morantiana.
Il libro che già da qualche tempo ha attirato la mia attenzione è quello di Gigliola Fragnito, Un fanciullo licenzioso. L’educazione di Ranuccio Farnese, nipote di Paolo III, Il Mulino, Bologna 2024. Il volume è l’ultimo contributo di Fragnito la più importante studiosa dei Farnese. I suoi interessi l’hanno portata anche a Ferrara in quanto componente dell’Istituto di Studi Rinascimentali. Il punto di vista più spiccato, a mio avviso, si indirizza soprattutto sostanzialmente al “paragone” di longhiana memoria tra l’ieri e l’oggi; tra ciò che la vicenda deposita come storia e la sua ripercussione nel presente. Un ragazzo, Ranuccio, nipote di Papa Paolo III Farnese viene “educato” in modo tale da poter affrontare il suo futuro ruolo di membro importantissimo di quella famiglia da una serie di precettori che devono indirizzarlo al cammino da compiere. Nella copertina ci accoglie il ritratto che di lui ragazzo fece Tiziano nel 1542 ora custodito alla National Gallery di Washington. Da questo ritratto che mette in mostra la stupefazione e la vivacità del soggetto attraverso un’imponente massa di documenti siamo portati a riflettere sul metodo educativo che veniva impiegato dai precettori a cui il Papa, ma la famiglia intera, lo avevano affidato. Appaiono i nomi dei più noti intellettuali del tempo, tra i quali spicca quel Manzoli che lo accompagnò dodicenne nella Serenissima dal 1542 al ’45. Chi s’interessa di ferraresità può istituire interessantissimi paragoni tra le culture chiamiamole per brevità emiliane che si confrontano con quella assai più complessa veneziana.
Nel terzo capitolo si apre il discorso sugli “eretici” che rivestono posizioni assai importanti nella Curia attraverso una propaganda riformista assai spinta ma comunque tollerata e a volte condivisa dal Papa e dalla famiglia Farnese. E in questo campo la ricerca di Fragnito assume aspetti davvero notevolissimi. Come scrive l’autrice “l’irriducibile nepotista Paolo III legato a movimenti ereticali può spiegare l’assidua vigilanza sull’educazione di Ranuccio e la lucida consapevolezza di averlo affidato a persone dall’inquieta religiosità”. Altri temi affrontati con grande savoir faire sono quelli legati alle giornate del fanciullo e anche quello della golosità del personaggio che lo porta all’obesità oppure -ancora una nota “ferrarese”- quella legata ai Gesuiti che lo spinge ad aprire un collegio ad Argenta nel 1564. Da concludere con una nota a me molto cara: quella per la sua “dilagante passione “per i giardini che lo induce ad acquistare a Roma presso gli Orti farnesiani i giardini affidando al Vignola il portale d’ingresso. Dunque, un libro che tratta di antichi per scoprirne la modernità. In questo anno si celebra con una presentazione prossimamente anche a Ferrara uno tra i massimi studiosi di Cesare Pavese: Lorenzo Mondo. Caratteri mobili. Le lettere degli scrittoi a Lorenzo Mondo, Bur, Milano 2024 che tra i personaggi che hanno avuto contatto con il grande scrittore piemontese riporta una serie di documenti che testimoniano tra l’altro il rapporto tra lui e il più celebre regista ferrarese Michelangelo Antonioni di cui s’indaga la sceneggiatura del film Le amiche tratto dal racconto pavesiano: Tra donne sole.
E qui i ricordi s’infoltiscono ripensando a quanto della mia formazione culturale e a quella dei miei più cari amici, Marziano Guglielminetti, Anco Marzio Mutterle, Lino Pertile a suo tempo chiamati i pavesini debbono al grande scrittore di Alba. E nella corrispondenza con Natalia Ginzburg ritorna intatta la complessità di Pavese di cui Mondo fu primo critico e al quale dedica un libro fondamentale Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese apparso da Rizzoli nel 2006 o la pubblicazione del Taccuino segreto a cui si rifà l’ultimo contributo pavesiano che presenterò a Parigi nel novembre di quest’anno: Pavese settant’anni dopo. Un bilancio critico. Pavese soixante-dix ans après.un bilan critique a cura di Francesca Belviso, Aracne, Roma 20024 e ovviamente dedicato a “Lorenzo Mondo, l’indimenticabile padre delle colline. Ma un ferrarese per eccellenza raccoglie in questi giorni il plauso e l’interesse dei critici e dei lettori per la recente pubblicazione del suo ultimo romanzo: Dario Franceschini, Aqua e tera, La nave di Teseo, Milano 2024.
I miei rapporti con il politico ferrarese risalgono ad anni lontani non solo per l’amicizia che mi legava ai suoi genitori ma per quella con il loro figliolo. Nel firmarmi il libro presentato in una affollatissima palazzina Marfisa, Dario mi ricordò che io assieme a Roberto Pazzi fummo i presentatori del suo primo romanzo ma la nostra amicizia continuò nel tempo e con il tempo: “un caro amico” come suona la dedica al libro. La qualità della storia che a una rigorosa rievocazione storica accoppia quella di un amore “scandaloso”, quello che unisce non solo la progenie di un fascista con quella di uno “scariolante” ma il fatto che sono due donne ad esercitarlo rende la vicenda particolarmente importante non solo per chi, come l’autore, chiede diritti alla “fantasia” ma come la fantasia possa accedere alla storia e viceversa. Sollecitato a rispondere su quello che di “vero” la storia dell’amore tra le due ragazze comporta, Franceschini risponde con un lapidario “non so” che sancisce la volontà e la necessità di lasciare all’autore ma anche al lettore quel margine di probabilità che conduce al riconoscimento dell’insostituibilità dell’io narrativo. Uno dei più importanti elementi che si rinvengono nel romanzo e già enucleato nel titolo Aqua e tera è il dialetto usato come lingua. Da sempre la nostra storia letteraria ha posto il problema come quello della fondamentale costruzione di una lingua che, come si constata da un evento fondamentale della nostra cultura linguistico-letteraria, sancisce il predominio del dialetto toscano su quello degli altri tanto da divenire la struttura della lingua italiana. Nonostante ciò, altri dialetti hanno prodotto una mèsse non indifferente di prodotti letterari. Così pure per quello, chiamiamolo estense, che tra le mura della città vede l’opera di autori come Ariosto, Tasso fino ai recenti narratori novecenteschi che hanno saputo avvicinarsi al dialetto per renderlo lingua. Franceschini opera, dunque, usando il dialetto in parte italianizzato per riprendere questo importantissimo impulso per cui, pur restando dialetto esso ci permette di creare una lingua tanto fantastica quanto interessante da un punto di vista dell’esercizio narrativo. Un esempio tra i tanti: “ An sentìva più il gamb da la paura. Quand at’ho vist a iò pensà ch’at purtàvi ‘na brùta nutizia” p.95. dove la marcatura del dialetto e della sua corretta esposizione è dato dall’uso degli accenti che marcano la dizione essendo il dialetto anche un “parlato”. Ma piccoli indizi ci lasciano credere quanto sia stato in qualche modo difficile rendere la possibile aleatorietà del dialetto stesso. Qui è scritto pensà ma il dialetto usa anche pansà. Mi riservo in altra occasione di approfondire questo tema. Basti al momento ricordare come suona il titolo di questo intervento che leggere è davvero una passione.