Ferrara, 9 maggio 2014 - LUCA Caprini, 51 anni, in Polizia da trenta e segretario provinciale del Sap, nei giorni scorsi ha scritto una lunga lettera al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, decidendo di rimettergli l’onorificienza per meriti di servizio e il titolo di Cavaliere ricevuti dopo essersi prodigato, nel 1995, nel salvataggio di un’aspirante suicida. Caprini contesta il fatto «che in questo Paese tutti si possono permettere di dire tutto sull’operato delle forze dell’ordine, attaccarle senza che le istituzioni ribattano e nessuno le difende». Poi tanta solidarietà verso la famiglia di Federico Aldrovandi: «Come si fa a non provare pietà per il suo dramma?»

L'intervista

«In servizio, in un secondo puoi passare da eroe ad assassino. In un secondo, ho deciso di riconsegnare le mie onoreficenze al presidente Napolitano».

Tutto per gli applausi ai suoi colleghi condannati per la morte di Federico Aldrovandi.
«Ero in sala, non ho applaudito solo perchè ho le stampelle. Idealmente l’ho fatto, senza pentirmene: non certo per ribaltare la sentenza a carico dei tre colleghi. Solo per solidarietà umana verso persone che, a mio avviso, sono pienamente consapevoli del dramma legato al loro gesto».

Perciò respinge le accuse di indegnità e vergogna piovute sul sindacato di polizia.
«Trovo sconcertante il clamore; ci ha fatto ripiombare dieci anni indietro, alimentando strumentalizzazioni che non giovano a nessuno. A noi agenti, in balia di mille problemi e di una disorganizzazione irrisolta; alle istituzioni che dovrebbero introdurre migliorie che invochiamo da tempo; alle vittime di questa specifica tragedia».

Che sentimenti prova per Patrizia Moretti, mamma di Federico?
«Davanti al suo dolore ed a quello del papà Lino che è anche un collega, mi inchino. Da genitore prima che da agente di polizia capisco, e rispetto, qualunque cosa dica. Federico è la prima vittima di questa storia, ha pagato più di tutti e questo non va mai dimenticato. Ma neppure strumentalizzato».

Perciò ha deciso di riconsegnare al Capo dello Stato il diploma di Cavaliere e la medaglia di bronzo ricevuta dopo aver salvato dal suicidio una donna che si era gettata nel fossato del Castello?
«Solo Napolitano può dirmi se sono ancora degno di quei riconoscimenti. Perché con lo stesso spirito con cui, vent’anni fa, mi sono tuffato torbide per aiutare un essere umano, e con cui ogni volta assieme ai colleghi vado in pattuglia malgrado inefficienze pesanti, non tollero che di noi si parli come assassini, torturatori, oppressori di povera gente. Non ci sto che spuntino striscioni nelle curve degli stadi dopo che, per garantire servizi di sicurezza, ci ritroviamo a fronteggiare situazioni incredibili. Se io, come tanti colleghi che hanno fatto cose ben più importanti delle mie, merito un encomio, allora non può essere cancellato da un’etichetta sprezzante appiccicata da chi, anche nelle istituzioni, non sa e non conosce».

E’ implicitamente un’accusa al presidente della Repubblica, al Ministro dell’Interno, al presidente della Camera per citare i primi che si sono scagliati contro gli applausi ai tre colleghi?
«No. A Napolitano ho posto un tema umano. Quando si è recato in visita ad un carcere, l’ha fatto per carità umana e misericordia oppure per esprimere in qualche modo un giudizio nei confronti delle sentenze che hanno portato quelle persone dietro le sbarre? Io non ho dubbi sul sentimento del suo gesto. E vorrei che non se nutrissero più sulle ragioni del mio, del nostro».

Stefano Lolli