
L’ordine degli avvocati ha costruito un progetto sulla violenza di genere all’Istituto tecnico Montani: hanno ascoltato le toccanti testimonianze di due donne coraggiose che però sono riuscite a cambiare vita.
Non si è solo avvocati nelle aule di giustizia: si è avvocati anche nelle scuole, fra gli studenti, con gli studenti, perché il diritto diventi educazione civica ed educazione di vita. Con questo spirito e con questa missione il Comitato pari opportunità del Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Fermo ha costruito un progetto sulla violenza di Genere presso l’Istituto tecnico Montani di Fermo. Coinvolte le classi del biennio, in classe ogni volta due avvocati e testimoni fortissimi, vittime di violenza o personale delle forze dell’ordine, per raccontare la violenza da dentro, farne vedere i colori foschi e dare anche una luce di speranza. Oltre alla presidente, Laura Botticelli, che ha fortemente voluto l’iniziativa, sono entrati in classe anche gli avvocati Letizia Astorri, Andrea Luciani, Marco Valeriani, Antonella Romagnoli, Roberta Ferracuti, Michela Melograni, Marco Alessandrini, Nicola Ciarrocchi, Alessia Capretti, per aprire una finestra giuridica sulle norme, nazionali ed internazionali, di tutela della donna, vittima di violenza di genere o domestica e di tutte le figure vulnerabili, sino ad arrivare a toccare argomenti molto vicini ai giovani, come il cyberbullismo. Ieri c’è stato un momento di forte commozione, alla presenza della dirigente della squadra mobile della Questura di Fermo, Maria Raffaella Abbate, con Laura Censi della Fondazione Sagrini e due donne coraggiose che la violenza l’hanno vista in faccia.
Rosa ha raccontato la sua storia di moglie e madre massacrata di botte dal marito, anche di fronte ai figli, per qualunque cosa, per ogni sbaglio, per niente e per tutto: "Alla fine è stato mio figlio, quattro anni appena, a dirmi che dovevamo andar via da quella casa, io non sapevo dove andare, non avevo niente, credevo di amare mio marito e che lui mi amasse. Quando mi hanno portato in comunità volevo tornare indietro, pensavo di tornare con mio marito, che fosse mio dovere. Mi hanno tolto il cellulare per proteggermi e io mi sentivo in trappola. Ho dovuto lavorare molto su di me, con gli educatori, gli psicologi, con tutti. Non sapevo fare niente, non sapevo trovare una strada, non potevo vivere in autonomia. Oggi, dopo tanti anni, ho preso la patente, lavoro, sono libera e non ho bisogno di nessuno".
Ornella piange tanto quando racconta, anche lei si sente in colpa per quello che ha vissuto e per il dolore che ha subito suo figlio, all’epoca nemmeno due anni: "Anche mio padre era violento, una volta mi ha chiuso in camicia da notte fuori, c’era la neve. Quando ho trovato un amore pensavo di essere felice e invece ero finita in un altro incubo. Mi controllava, mi accusava di ogni cosa, alla fine ha preso anche a drogarsi e mi rendeva la vita un inferno. La volta che mi ha minacciata con un coltello sono scappata, con un bambino per mano e uno nella pancia, con due pannolini e le pantofole ai piedi. Ho lavorato tanto per essere indipendente, perché i miei figli non debbano vergognarsi di me". Piangono anche i ragazzi, riconoscono il dolore, riescono a dargli un nome. Laura Censi raccomanda loro di respingere anche la violenza che gli è vicina, quella che giudica un compagno perché magari è diverso o indossa una felpa anonima. Di occuparsi di chi sta male, di non essere indifferenti, di fidarsi delle forze di polizia che sanno accogliere, degli avvocati che sanno proteggere i diritti delle vittime, di diventare protagonisti di un futuro in cui non ci sia violenza di genere, mai più.
Angelica Malvatani