Nei territori dell’Appennino esiste una generazione che cresce senza più linguaggi per dire chi è. Il disagio giovanile in montagna non ha le forme gridate delle periferie metropolitane. Un disagio silenzioso, un ritiro sociale. Dietro si cela l’erosione del futuro come orizzonte possibile. L’intervento psicologico deve farsi gesto collettivo, ascolto istituzionale. Ascoltare i giovani significa restituire cittadinanza al desiderio.
Federica Mazzocchini
Risponde Beppe Boni
Quella che pubblichiamo, ridotta per motivi di spazio, è una stimolante riflessione di una psicologa e psicoterapeuta, docente di sostegno presso l’IIS Fantini di Vergato. Il disagio giovanile in montagna è un problema complesso con molte sfaccettature che può sfociare nella percezione di isolamento e difficoltà di accesso a servizi e opportunità. Questo disagio può manifestarsi in vari modi, con problemi di autostima, ansia e difficoltà nelle relazioni. Ma siano certi che i giovani d’alta quota siano così esposti a questo male oscuro? In parte può essere vero, ma non va sottovalutata la capacità di relazione che offrono gli strumenti digitali e i mezzi che permettono di raggiungere la città, i quali, certo non sono la soluzione del problema, ma rispetto ad un passato recente lo attenuano parecchio. I ragazzi che abitano in quota non hanno nulla da invidiare agli altri, se non le difficoltà legate alla mobilità. Certo, dotare le località dell’Appennino di attività culturali e di servizio è sempre necessario e fondamentale. Bene quindi iniziative come la riapertura del cinema Aurora di Monghidoro, con testimonial Gianni Morandi, grazie all’editore Emilio Persiani e al bravo sindaco Barbara Panzacchi. Un piccolo grande esempio che aiuta a ridare identità alla montagna. Da imitare.