SERGIO GIOLI
Editoriale
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Con l'ideologia non si mangia

Ha fatto scalpore un'intervista pubblicata dal nostro giornale a una ristoratrice di Modena. Il senso: assumo stranieri perché lavorano più degli italiani. Per l'imprenditrice in questione, gli italiani hanno troppe pretese (turni comodi, fine settimana liberi) e meno entusiasmo. Apriti cielo! Sul web si sono scatenati gli indignati in servizio permanente effettivo. Insulti, minacce. Il consueto armamentario di chi rifiuta di riflettere su un problema (qualsiasi problema, gli indignati sono di tutti i colori e di tutti gli orientamenti politici). Insultare è comodo e costa poca fatica. In realtà, quello degli italiani, soprattutto giovani, poco disponibili al sacrificio è un tema dibattuto da parecchio tempo e assai presente soprattutto agli operatori turistici, tant'è che un secondo articolo ha evidenziato come le stesse identiche cose le pensino anche ristoratori, commercianti, balneari e albergatori della riviera romagnola. E allora? Siamo diventati tutti vagabondi e i nostri figli sono tutti bamboccioni? La questione, forse, è un po' più articolata. Certo, la retorica dei ''lavori che gli italiani non vogliono più fare'' ha un fondamento e risponde a un'evoluzione naturale comune a tutte le società avanzate che si sono elevate in termini di benessere e di istruzione. Ma ci sono altri fattori da considerare. Uno emergeva proprio dal nostro secondo articolo: se un tempo - ammettevano gli stessi operatori turistici interpellati - con quello che uno stagionale guadagnava durante i mesi estivi riusciva a campare quasi tutto l'anno, oggi non ci va neppure vicino. E stiamo parlando di contratti nazionali regolari, non di sommerso. In questo quadro è comprensibile che si faccia avanti chi deve lavorare ad ogni costo e non i figli di famiglie che hanno già raggiunto una stabilità economica. Ecco, dunque, la questione delle questioni, quella salariale, che, si badi bene, investe l'intero sistema, non certo il solo settore della ristorazione e del commercio. Secondo l'Ocse, l'Italia è l'unico paese in cui, tra il 1990 e il 2020, i salari reali sono scesi, addirittura del 2,9%. Nel resto del mondo sono saliti, e di parecchio. Francia e Germania viaggiano tra il 30 e il 40% in più. Economisti e giuslavoristi azzardano mille spiegazioni. Tra queste di sicuro ci sono anche una politica e un sindacato che hanno anteposto le grandi battaglie ideologiche alle concrete rivendicazioni economiche. In Italia si è parlato allo sfinimento di articolo 18 e del suo contrario, ci si è scannati sul Jobs Act (c'è chi ancora sta raccogliendo firme per abolirne una parte) e sulle più fantasiose e astruse tipologie di contratto. Senza considerare lo sciagurato reddito di cittadinanza e il dibattito sul salario minimo, provvedimento, quest'ultimo, in teoria giusto ma che rischia di portare un effetto contrario a quello desiderato, con un ulteriore livellamento delle paghe verso il basso. In tutto questo affannoso battibeccare, quando si affronta il tema del crollo demografico e della scarsa propensione dei giovani a mettere su famiglia e a procreare, la discussione cade quasi esclusivamente sul piano normativo e sul welfare. Che, ovviamente, sono fondamentali. Ben vengano, ci mancherebbe, gli assegni familiari, gli sgravi fiscali, i congedi parentali, i permessi, le maternità, le paternità, le 104, gli asili nido, lo smart working... Ma è lapalissiano che per scommettere sul proprio futuro bisogna guadagnare abbastanza da poterselo permettere. L'analisi sarà anche rozza, ma al punto in cui siamo arrivati l'unica svolta sarebbe mettere qualche soldo in più nelle tasche dei giovani che lavorano.