Resta ancora avvolta nel giallo la scomparsa di Daniela Ruggi. Ma chi è e cosa rappresentava la sua figura? Dal punto di vista vittimologico, cioè di quel ramo della criminologia che studia le possibilità che una persona possa essere vittima di un reato, Daniela è una vittima ad alto rischio. Una donna fragile, invisibile agli occhi di molti, ma forse fin troppo visibile per chi cercava un bersaglio facile. La vittimologia insegna che le vittime non sono mai casuali. Daniela camminava spesso sola, al telefono, vestita in modo appariscente.
Non aveva una rete di supporto, viveva ai margini di una società che probabilmente non ha mai voluto conoscerla davvero. È un rischio sottile, quello di una vita senza difese. Dicono in paese che Daniela dava fiducia a tutti, forse per paura di non riceverne mai abbastanza in cambio. Era il suo modo di aggrapparsi al mondo, ma ogni stretta di mano lasciava tracce pericolose, ogni parola gentile poteva celare un secondo fine. Le testimonianze parlano di uomini più grandi, dominanti, relazioni senza confini chiari, dinamiche in cui il potere non è mai equamente distribuito. Era una donna sola, ma non soltanto emotivamente.
La solitudine di Daniela era anche geografica, fisica, una presenza costante che la rendeva più vulnerabile a manipolazioni, coercizioni, sguardi attenti che studiavano le sue abitudini. Nessuno sceglie di diventare vittima, ma chi la osservava potrebbe aver scelto lei. La vittimologia non punta a colpevolizzare, bensì a spiegare: chi è fragile, chi è isolato, chi non riesce a leggere i segnali del pericolo vive in un perenne stato di esposizione. Daniela è stata vista, analizzata, sfruttata. È difficile credere che la sua sparizione sia un atto volontario. Non si era mai allontanata per così tanto tempo da casa. Daniela non è mai stata veramente protetta, né da sé stessa né dagli altri. La vittima perfetta non esiste, ma Daniela era tutto ciò che un predatore potrebbe desiderare.