Vasco Rossi, la partenza del suo tour, con la data zero di Rimini, è un po’ una prova di ripartenza anche per l’Emilia-Romagna ferita dall’alluvione. Lei si è subito speso per la popolazione colpita, con una donazione personale.
"Arrivo a Rimini, in quella terra straordinaria e generosa che è l’Emilia-Romagna, ultimamente ferita da un’alluvione spaventosa. Ma ho fiducia nei miei conterranei, siamo gente che non molla mai. Io sto arrivando, noi musicisti possiamo cercare di portare un po’ di gioia ed è quello che faremo tra qualche giorno allo stadio di Rimini. Non vedo l’ora. Ogni volta non vedo l’ora, stare sul palco è una malattia da cui non guarirò mai. Questa volta un po’ di più".
Come si sta preparando al tour? Qual è stata la sua giornata tipo?
"Quest’anno proseguo il tour dell’anno scorso con più tappe al Sud. Da Bologna in giù diciamo. Per la prima volta parto ‘da casa’, da Bologna dove non facevo un concerto da un bel po’ (dal 2015), e sono fiero delle 4 date prenotate allo stadio, un poker a Bologna è una gran bella soddisfazione. Dai primi di maggio siamo stati al Cromie di Castellaneta (Taranto), solo noi, il mio lo staff e la band. Abbiamo provato tutti i giorni la scaletta intera. Io arrivavo alle 16, dopo i miei duri allenamenti mattutini quotidiani in pineta, mentre Vince Pàstano, che si occupa anche dell’organizzazione artistica della band, provava con loro tutta la mattina. Quando arrivavo io i pezzi erano già tutti preparati e potevo cominciare a provarli tutti di seguito. A fine giornata ecco il punto della situazione con Vince e, se ci sono degli aggiustamenti da fare, si fanno. Sono molto contento, la scaletta rotola bene".
Cosa direbbe ai suoi fan che non vedono l’ora di tornare a sentirla dal vivo? Cosa devono aspettarsi da questo tour?
"Più che fan li chiamerei il mio popolo per una questione di affinità elettive. Loro mi conoscono, si fidano di me e lo sanno già che vedranno lo spettacolo rock più potente ed emozionante al mondo. Ci saranno molte sorprese a cominciare dagli arrangiamenti più asciutti e rock, molte chitarre. (A Stef Burns e Vince Pàstano si aggiunge Antonello d’Urso alla chitarra acustica, ndr). Confermata la sezione fiati che diventa l’ anello di congiunzione con il tour dell’anno scorso. I 28 brani scelti in scaletta sono adatti anche al tempo che viviamo. Come nella migliore (e immortale) tradizione del rock, il clima sarà “sax, sex and rock’n roll” e una buona fetta del discorso è rivolta all’altra metà del cielo, le donne. L’obbiettivo finale è di portare un po’ di gioia, soprattutto in questi anni così complicati".
Qual è il suo rapporto con Rimini e Riccione? Lei in Romagna ha passato molto tempo. Ci mandi qualche cartolina, ci sblocchi qualche ricordo. Tre luoghi del cuore e una storia .
"Ho visto per la prima volta il mare Adriatico sui 7/8 anni, quando mi ci portò la zia. Ancora oggi ricordo l’emozione potente che provai nel vedere tanta acqua. Sembra banale, ma io non lo avevo mai visto prima. Zocca è una località di villeggiatura, le mie estati le passavo lì a casa, per boschi con gli amici d’infanzia, a cui d’estate si aggiungevano quelli che venivano su da noi a fare vacanza. Qualche anno dopo ho frequentato Rimini e Riccione ma in realtà il mare non lo vedevo mai, per me era come se non ci fosse. Facendo serata in discoteca andavo a letto la mattina presto e mi alzavo nel pomeriggio tardi per... tornare a fare mattina. Avevo affittato una villa sulle alture, che bell’andirivieni di amici e di amiche!".
E Rimini?
"A Rimini ci sono sempre stato bene, mi ci sento come a casa. Sarà il modo di vivere, l’atteggiamento umano e positivo, come prendono le cose assomiglia un po’ a quello di Zocca. Ricordo che quando ho visto ‘Amarcord’ di Fellini, ho avuto quell’impressione lì: lui descriveva Rimini, il modo di essere delle persone e io ci trovavo un po’ dell’aria di Zocca, il ‘Paesone’ ricco di umanità varia, dove tutti ti conoscono e tu conosci loro e ci si deve tollerare, e ci si deve accettare".
In “Rimini” Pier Vittorio Tondelli scriveva che “si cerca sempre se stessi, in fondo. O qualcosa di noi che non ci è chiaro o non abbiamo capito: le ragioni di una sofferenza, o di quella malattia sotterranea che ti prende il respiro ed è nera e umida come la malinconia”. Nello stesso anno, il 1985, lei scriveva ‘Cosa succede in città’ dove “Siamo noi, siamo noi Quelli più stanchi Siamo noi, siamo noi Che dovremo andare avanti”. Che anni erano? Quanto diversi (o simili) a oggi?
"Sembra lo slogan dei giovani di oggi… Allora eravamo a metà degli anni ’80, in mezzo a tutto quel ‘divertimento’ che c’era nell’aria e all’inebriamento della Milano da bere. Il mio era un grido d’allarme, l’urlo istintivo dell’artista che si rende conto che il mondo non è stato migliorato con gli anni ’70, anzi delle due era andato tutto a rotoli. E in un mondo che stava già andando male, toccava poi a noi che eravamo i giovani, ‘quelli che dovremo andare avanti’, rimboccarci le maniche e raccogliere i cocci. Ci vedo un grande collegamento con i giovani di oggi che denunciano i guai del pianeta che prima o poi scomparirà. E nessuno di quelli che possono fare qualcosa, cioè i potenti, fa niente per cambiare le cose".
Poi toccherà a Bologna, con quattro date. Cos’è Bologna per lei? E quanto la sua terra, l’Emilia, l’ha forgiata?
"Bologna è la mia città! Ci sono venuto a 15 anni quando sono scappato dal collegio a Modena. Per me era come New York. A Bologna ci ho fatto le superiori, l’università. A Bologna mi sono quasi laureato... Eh, non tutti sanno che mi mancano 4 esami alla laurea in psicologia. Mi ci sono formato culturalmente, facevo teatro sperimentale sulle orme del Living Theatre, nel ’77, erano i tempi di Bakunin, Ionesco, di Allen Ginsberg e di barricate. A 23 anni, dato che non riuscivo a cambiare il sistema (come si chiamava allora) mi sono inventato un sistema mio".
Quale?
"‘Il quarto potere del rock’, la storia di Vasco Rossi. Sono partito dalla radio, Punto Radio, e mi sono poi dedicato totalmente alla musica. A Bologna ho il mio quartier generale, studio e uffici, indovini un po’ dove? L’ho voluto sulla via Emilia. Mi affaccio alla finestra ed è tutta lì davanti a me la mitica via Emilia che porta al mare. Da un po’ di anni quando arriva il tempo grigio e freddo, me ne scappo a Los Angeles dove il clima è sempre mite e sono libero di girare indisturbato, è un altro vivere quando puoi andare al supermarket. Ma torno sempre a casa perché è qui in Italia che vivo".
Quest’anno Lucio Dalla avrebbe compiuto 80 anni. Chi era Lucio per lei e quanto manca alla musica italiana?
"Ah, guardi, la sua voce e la sua genialità. Dalla mi ha letteralmente folgorato quando lo vidi a Sanremo con ‘4 marzo ’43’: allora ero in collegio e ci facevano vedere Sanremo... avrò avuto 13/14 anni. Lui era in gara tra i cantanti, nasceva come cantante, ma ha avuto la capacità, credo unica ai tempi, di diventare cantautore e di scrivere canzoni bellissime. Un gigante che ha segnato profondamente la storia della musica italiana".
Sono i 40 anni di ‘Bollicine’, un pezzo iconico che denuncia le storture della pubblicità. Come nacque l’idea?
"Pensi un po’ che oggi la Coca Cola vuole essere nelle canzoni, allora per poco non mi facevano causa, come cambiano i tempi! L’idea nasce da uno spot pubblicitario, quello della Vespa, e poi sfocia in una feroce denuncia satirica della pubblicità che crea sempre più bisogni. Mi sono divertito a giocare con le parole e le pause. Lo spot recitava ‘Chi Vespa mangia le mele’ e io rispondevo: ‘E chi non vespa più? Si fa le pere’. Era quello che, purtroppo, in quel periodo accadeva più spesso, il disagio era diffuso e crescente, palpabile intorno. Quindi, rincaravo la dose con quella pausa (teatrale) dopo ‘coca’... Apposta per colpire i benpensanti".
Chi sono i benpensanti oggi, 40 anni dopo?
"Sono sempre loro, quelli che predicano bene e poi razzolano male, e la fanno sempre franca. Sono gli ipocriti che non vogliono cambiare lo status quo dei loro privilegi e non si accorgono che intorno a loro il mondo corre e cambia in fretta".
In ‘Bollicine’ si parlava di stereotipi, del potere dell’immagine. Oggi, nell’epoca dei social, come si fa a non essere stereotipi?
"In realtà nella canzone io uso gli stereotipi per prendermela con chi li crea, la pubblicità in primis. I social hanno stravolto le regole, ognuno è libero di esprimersi come gli pare e questo ovviamente ha i suoi pro e contro. Da un lato c’è più franchezza e molti tabù vengono demoliti; dall’altra, senza mediazioni, c’è il Far West. La possibilità di creare profili falsi consente di diffamare chiunque e comunque senza prendersene la responsabilità. Una vera vergogna alla quale il congresso americano non ha intenzione di mettere un freno esigendo che ogni profilo possa essere aperto solo con il certificato di identità...".
Qual è il suo rapporto con i social, i clippini e i commenti?
"I social sono uno dei miei passatempi preferiti, non potendo avere una vita sociale, ne faccio una ‘social’. Quando sono arrivati i social, da Facebook a Instagram, (un po’ meno Twitter) ho finalmente trovato il mio mezzo di comunicazione ideale con il mondo, diretto e senza filtri. E ho anche uno staff di collaboratori che mi aiutano nei contenuti, una vera e propria redazione web sotto la mia direzione. I clippini, il passo successivo ai post, li ho inventati praticamente io, mi rivolgevo ai miei followers con il mio telegiornale".
Si sente mai ostaggio del telefono?
"Ce l’ho sempre con me, inseparabile. Strumento ormai indispensabile più per documentare con foto e video che per telefonare. L’ho sempre tenuto a distanza, mai sopportato lo squillo... ma adesso che compare il nome sono costretto a rispondere. Non mi sento ostaggio perché conservo ancora la buona abitudine di usarlo solo quando serve a me, schiavo sì: non resisto alla tentazione di accenderlo per filmare, fotografare".
Ha compiuto 70 anni l’anno scorso. Ha paura del tempo che passa?
"Il passare del tempo non mi ha mai preoccupato, ho sempre vissuto ogni giorno come se fosse l’ultimo".