Talvolta abbiamo paura del vuoto, come del silenzio o delle assenze, e pensiamo che uno spazio vuoto sia privo di significato: horror vacui, viene definito questo sentimento. "Ma non è così. Immaginate una sala d’attesa in un ospedale dove nessuno parla. Sembra vuota, ma sotto la superficie si muovono molte cose", confida Wim Vandekeybus, regista, danzatore, fotografo belga, fra i principali coreografi contemporanei, da molti anni al centro della scena europea.
’Void’ (’vuoto’, appunto) è la sua nuova creazione che ha debuttato a Bruxelles e che Vandekeybus, con la sua compagnia Ultima Vez, presenterà in prima italiana domani alle 20.30 al teatro Bonci di Cesena, poi sabato alle 19 allo Storchi di Modena, nell’ambito di ’Carne’, la rassegna di drammaturgia fisica che Michela Lucenti cura per Ert. Su una scena minimale, con fondali che rivelano o nascondono e luci cangianti, si muovono 6 danzatori, ognuno con la propria storia: isolati ciascuno nel proprio mondo, sono insieme in un’armonia differente.
Vandekeybus, come è nato ‘Void’?
"Nel mio lavoro precedente, ‘Infamous offspring’, avevo indagato la mitologia, Zeus, Era, Tiresia. Qui invece ho voluto lavorare soprattutto sulle esperienze individuali più autentiche. Viviamo in una società che ci condiziona e che ci ‘indica’ una sottile linea di normalità: tutto quello che esula viene etichettato come anormale. Invece l’imprevedibilità e l’incoscienza sono vitali per il lavoro artistico. Qui ho voluto appunto celebrare coloro che possono sembrare socialmente diversi, dunque talora esclusi: il tema dell’emarginazione, della diversità e dell’essere ai margini della normalità è l’ispirazione principale di ‘Void’. E vogliamo gridare che la ‘normalità’ non è sempre la stessa".
Chi sono i suoi personaggi?
"Ognuno di loro costruisce una propria bolla di vuoto, ha una storia e ha una sua personale e individuale ‘normalità’, e in scena coltiva e danza il proprio vuoto. C’è Adrian che interpreta sua nonna che dalla Finlandia emigrò a New York poi è rientrata in Scandinavia per cercare il vuoto e le sue radici. C’è una teenager che ha passato tutta la gioventù chiusa in casa, perché i genitori la lasciavano davanti alla tv. C’è la danzatrice che interpreta il fratello autistico. C’è la scena di un matrimonio con lo sposo e la sposa che danzano insieme senza mai perdere il loro ‘vuoto’: i loro sguardi non si incrociano mai, eppure sono insieme".
Sono storie personali?
"I miei danzatori, Iona, Lotta, Cola, Paola, Adrian, Hakim, sono di origini e di età differenti, e qui sono anche co-creatori: per la costruzione dei personaggi ho chiesto loro di esplorare il loro passato, attingendo anche a esperienze personali. Mi piace lavorare anche sul mondo dell’emotività, delle paure, del sogno e del desiderio. La colonna sonora elettroacustica è stata creata in collaborazione con il giovane compositore Arthur Brouns".
C’è bellezza nella diversità?
"Certo. A volte la mia danza è stata fraintesa perché io non lavoro sui pezzi d’insieme o sull’unisono, preferisco concentrarmi sulle individualità e nelle azioni che presento cerco sempre di suscitare un’emozione. La bellezza sta anche nei contrasti. Questo spettacolo ha anche azioni dirette, ma mai aggressive. Eppure a volte le mie coreografie hanno suscitato reazioni avverse: alcuni critici stroncarono il nostro primo spettacolo in cui si tiravano mattoni (’What the body does not remember’ del 1987, ndr) e suggerirono di evitarlo, eppure poi abbiamo vinto il Bessie Award a New York".
La sua compagnia Ultima Vez ha compiuto 37 anni. E per il futuro?
"Sono sorpreso di questo percorso così lungo: è il miracolo della creatività. Personalmente ho molti progetti in vista: nel ‘27 lavorerò anche con i danzatori dell’Opèra di Parigi. E produciamo anche giovani coreografi, come Lukah Katangila, il cui ‘Imprisoned gods’ debutterà a febbraio in Belgio".